Robinson, 25 gennaio 2024
Biografia di Gennaro Sasso raccontata da lui stesso
A 95 anni è il più insigne studioso dell’Alighieri sul quale ha scritto una decina di volumi, e di Machiavelli Ma ha anche appena pubblicato un saggio di filosofia “Il ministro Sangiuliano voleva conoscermi, ho declinato”diAntonio GnoliA95 anni conserva la freschezza e la libertà per dire ciò che pensa.Gennaro Sasso – il più insigne studioso di Machiavelli (e aggiungerei di Dante) – ha appena concluso un ponderoso libro di filosofia. C’è anche il titolo:Essere, storia. Vado a trovarlo nella sua casa romanaall’Aventino. Sul tavolo qualche appunto su Adolfo Omodeo: «Me ne sto occupando, nella convinzione che sia il più grande storico italiano del Novecento».Allora da dove vogliamo cominciare?«C’è il nuovo anno che si è aperto».Che sensazioni ti provoca?«Non ho la vocazione del chiromante, ma non è difficile prevedere che sarà un anno più complicato di quello che si è chiuso».Lo affermi su quale base?«La sola a mia disposizione: che è poi il perenne lamento di un vecchio».Ti senti vecchio?«Ho 95 anni, tu che dici?».Credevi di arrivare a questo traguardo?«Se penso ai miei amici, quelli dell’università, e agli altri venuti dopo, quasi tutti scomparsi, direi di no. Ho avuto una lunga vita. Gioie e dolori per dire un’ovvietà».Chi sono stati i tuoi compagni di università?«Di quelli più cari ne cito due in particolare: Luciano Zagari, che diventerà un germanista, e Cesare Garboli, finissimo letterato. Con Cesare ci conoscemmo durante un esame con Natalino Sapegno. Era dotato di un ingegno straordinario e di una sensibilità critica al limite dello stregonesco. Ma tra gli amici vorrei ricordare una persona conosciuta fuori dall’università: Giovanni Ferrara, era il coltissimo il fratello di Maurizio».Dei tuoi maestri di allora chi ricordi?«Il più strabiliante Gaetano De Sanctis. Insegnava storiagreca, quasi cieco si muoveva con qualche difficoltà.Conosceva a memoria i testi che citava con un dominio delle fonti straordinario. Ti confesso che avrei volentieri intrapreso la carriera di grecista. Ma con lui, proprio durante un bellissimo corso su Tucidide, avvertii la mia inadeguatezza».E ti interessasti alla filosofia.«Presi a frequentare le lezioni che si tenevano alla facoltà di Roma. Seguivo Guido De Ruggiero e Pantaleo Carabellese e quelle straordinarie di Luigi Scaravelli, a lui devo l’atteggiamento di come si analizza un testo».In che anni hai frequentato l’università?«Dal 1946 al 1950. Mi laureai con Carlo Antoni e Federico Chabod. Dai nomi che ti ho fatto capisci la qualità dell’università allora. C’era gente di immensa sapienza: Giorgio Levi Della Vida, studioso di argomenti semitici, Antonino Pagliaro linguista e maestro di Tullio De Mauro. Se pensi che la cattedra di Teoretica era nelle mani di Giovanni Gentile e poi di Guido Calogero hai la misura di come siamo caduti in basso. Ma questo, come ti dicevo, è il lamento di un vecchio che coglie il tempo del disfacimento ma non sa o non può spiegarlo».È così complicato trovarne le ragioni?«Siamo tutti immersi in un grande pantano e non si riesce a stabilire come ci siamo finiti dentro. Quello che si nota è una sorta di spegnimento collettivo del cervello.Ma se si arriva alle spiegazioni si finisce fatalmente nel generico, ossia si ripetono i fatti».Tu che hai studiato Machiavelli sai quanto i fatti siano importanti.«Sembra che gli odierni politici o li rimuovono o li piegano al loro consenso spicciolo».Useresti l’aggettivo “penoso”.«Preferisco “imbarazzante”, una classe politica, salvo qualche eccezione, senza vocazione. Max Weber si rivolterebbe nella tomba».Oggi governa la destra, che idea ti sei fatto?«Da quale punto di vista?».Diciamo culturale.«I tentativi di darsi un orizzonte culturale più ampio ci sono».A cosa pensi?«C’è un progetto per un’edizione nazionale delle opere di Gentile. Si sono rivolti a me ma ho rifiutato».Perché?«Troppo vecchio e poi la verità è che sono già il responsabile delle opere di Croce. Ho chiesto a chi intendevano affidare le direzione, mi hanno fatto un nome. E questa persona mi ha telefonato chiedendomi di darle una mano».Non è uno specialista di Gentile?«Non mi pare. Ma questo è lo spirito del tempo.Oltretutto mi chiedo quale vantaggio il governo Meloni trarrebbe da Gentile? Non li vedo entrare nelle spinosissime questioni filosofiche».Ma è un’operazione politico-culturale. Gentile è il filosofo che ha sposato pienamente e fino in fondo la causa del fascismo.«Sì ma un conto è la filosofia di Gentile altro il suo fascismo».Tu hai sostenuto ne “Le due Italie” di Gentile che tra i diversi piani non c’è relazione.«Esattamente, se volessero un programma coerente alla loro politica dovrebbero allestire un’edizione nazionale delle opere di Julius Evola. Ma credo che il ministro Sangiuliano abbia velleità culturali di altro tipo. I suoi collaboratori volevano presentarmelo ma, con tutto il rispetto, ho detto no. Mi pare fosse Sangiuliano a sostenere che Dante è il fondatore della destra».Beh vuole anche apporre una targa per omaggiare Gramsci.«Gesti di superficie con uno scarso valore simbolico. Mi chiedo cosa direbbero delle persecuzioni che Gramsci ha subito negli anni del fascismo. La verità è che iniziative del genere non nascono da una riflessione, da un approfondimento. Ma dalla voglia di apporre un titolo su un giornale».Però esiste un gramscismo di destra.«Ogni tanto spunta fuori l’idea di strappare Gramsci dal mondo comunista, tentativo nato da alcune considerazioni intorno all’egemonia culturale».Non credi che esista l’egemonia culturale?«Oggi vige implacabile l’egemonia del cretino».C’è una cultura di destra?«Attualmente vedo una destra culturalmente povera. Legata al potere acquisito con le ultime elezioni e soprattutto preoccupata di conservarlo il più a lungo possibile».Cosa pensi dell’operazione Tolkien?«Nulla. Ci sono i nani, gli hobbit, mi chiedo a quando le ballerine? Tantissimi anni fa l’anglista e amico Vittorio Gabrieli mi suggerì di leggere Il signore degli anelli.Abbandonai il romanzo dopo una cinquantina di pagine. Può darsi che fosse un mio limite, ma mi sembrò oltremodo noioso. In ogni caso lo lascerei volentieri alla destra».Lasceresti anche Gentile?«Hanno provato a leggerlo senza capirne granché».Forse gli interessa la parte oratoria, più che quella filosofica.«L’appello di Gentile alla dignità italiana fu un modo per consegnare all’esperienza risorgimentale la nascita di un nuovo destino. Me nel rievocare oggi l’orgoglio italiano o il rispetto che l’Italia esercita nel mondo (mi chiedo dove?) si sentono echi della retorica fascista più che della cultura fascista che comunque, per quel poco che è stata accolta, si è formata fuori dall’ambito del fascismo: nella crisi delle democrazie e dei modelli liberali degli anni venti e trenta».Di quella crisi che esplose con la Prima guerramondiale vennero meno le filosofie che predicavano ottimismo. In particolare l’idealismo.«Dopo il 1914, con la rottura dell’ordine necessario, nascono filosofie della crisi. Anche l’idealismo – il più convinto sostenitore del nesso tra razionalità e storia – finisce col dare una visione drammatica di se stesso. In Italia una così aspra e dolorosa consapevolezza si coglie in Croce».Non in Gentile?«Egli restò immune dal dramma filosofico».Ma non da quello storico.«Immaginò una storia d’Italia dove la decadenza ebbe il sopravvento sul momento eroico dei comuni e la fierezza del mondo dantesco. Solo con il Risorgimento l’Italia riuscì a riconquistare le nobili ragioni della propria storia. Fu una rivoluzione morale che il fascismo, così si illudeva Gentile, avrebbe portato a compimento. La mia idea è che Gentile sia diventato fascista in funzione di questa interpretazione della storia d’Italia. E che l’attualismo con il fascismo può anche avere qualche assonanza di linguaggio, ma certamente nessuna assonanza di pensiero».Si accennava prima alle crisi della democrazia e del liberalismo dopo la Prima guerra mondiale. Alla fine della seconda – forse memore degli effetti tragici dell’altra – furono poste le basi per una nuova Europa.«Tutto questo è oggi rimesso in discussione».Ma che cosa non funzionò allora?«Tra i protagonisti di quella storia ho conosciuto molto bene Altiero Spinelli. Egli fu nel campo politico uno degli intellettuali più intelligenti che abbia incontrato. Ma quell’Europa da lui fortemente voluta non si è realizzata.Del resto come poteva? Essendo la sua esperienza limitata alla Germania, alla Francia e all’Italia, di quale unificazione avremmo parlato? Oltre l’Austria, cioè verso est, pensare all’Europa come a un tutt’uno è molto più complicato».Intendi dire che gli Stati Uniti d’Europa furono un abbaglio?«Se il modello era l’America il rischio era alto. Nel corso di questi settant’anni il vecchio continente è diventato una costruzione enorme e fragile. Esposto ai veti e alle contraddizioni. C’è un’Europa cartacea fondata sui principi e sui trattati e un’Europa reale che segue i flussi della storia. Di questi dovremmo preoccuparci. Non vorrei darti l’impressione dell’antieuropeista. Condivido il giudizio negativo che Spinelli formulò intorno all’Europa delle patrie».Fu mi pare un cavallo di battaglia di De Gaulle.«Una questione che oggi viene sbandierata dalle destre. E che in soldoni vuole dire: sto con l’Europa solo se mi conviene. È uno dei danni collaterali che subiamo».Qual è un passo che l’Europa dovrebbe compiere?«La costruzione di un esercito europeo. Nel 1952 proprio Spinelli, contro la politica di Mendès-France, si batte per l’istituzione di una difesa comune. Oltretutto viviamo tempi internazionalmente complicati».Come hai conosciuto Spinelli?«Lo conobbi, verso la fine degli anni quaranta, nella sede del Movimento federalista europeo che allora si trovava nella Piazza della Fontana di Trevi. Mia moglie Laura Calogero lavorava con lui al Movimento federalista con il compito di seguire la stampa estera. Spesso andavo a prenderla nella tarda mattinata e mi capitava di fermarmi a discutere con Spinelli. Avevo letto “Il manifesto di Ventotene” su cui gli rivolgevo qualche cauta domanda, sollecitata anche dalle discussioni con un caro amico, Renato Giordano».Che ruolo ebbe nella tua vita?«Renato era un giovane intellettuale napoletano. Allievo di Guido Dorso fece parte del Partito d’Azione. Divenne funzionario della Comunità Europea e in quel ruolo il principale collaboratore per l’Italia di Jean Monnet. Il suo straordinario acume attrasse Spinelli fino a farne uno dei principali interlocutori. Ricordo i mesi della malattia, trascorsi a Napoli nella casa del fratello e la morte precoce. Andavo spesso a trovarlo e a volte si univa Spinelli che non si rassegnava a quella fine annunciata.Per me fu una presenza importante anche se troppo breve».Ci si rassegna alla morte?«Durante i funerali di Ferruccio Parri, Spinelli mi disse,con tono commosso, che c’era qualcosa di più profondo della idea cristiana della morte, ossia l’idea stoica.Quest’ultima doveva essere attribuita alla fine di Parri.Non ci si rassegna alla morte, si accoglie».A che punto sei con i tuoi studi su Dante?«La vicenda dantesca si è conclusa. Avrò scritto una decina di volumi su di lui. Giunto quasi alla fine dell’esistenza devo provare a salvare la mia reputazione.Se ne scrivessi ancora passerei per un grafomane pazzo».Mi hai detto di aver concluso un libro di filosofia: “Essere, storia”. Perché la virgola e non la congiunzione?«Perché la rottura fra i due momenti è insanabile. La virgola è il segno della separazione».Ma se la filosofia non illumina o non guida più la storia perché occuparsene?«Per me è stato inevitabile. Mentre la storia accade – e non sai mai cosa ci riserverà – nella filosofia non può esserci alcuna novità. Forse aveva ragione il mio amico Rosario Romeo che considerava il mondo filosofico abbastanza stupido e quello della storia il solo che valesse la pena di essere esplorato».Una conclusione ironica.«Ho provato ad attraversare, non so con quanta ironia, entrambi i mondi».