Corriere della Sera, 25 gennaio 2024
Intervista a Emanuele, figlio di Nedo Fiano, reduce da Auschwitz
«Oggi vi racconterò l’inferno». Era questa una delle frasi con cui Nedo Fiano, uno degli ultimi sopravvissuti ad Auschwitz, scomparso a dicembre 2020, iniziava gli incontri con gli studenti nelle scuole. Tra questi, c’era anche chi scrive. L’esperienza della deportazione, insieme con altri undici membri della famiglia tutti sterminati, «lo ha reso un testimone per la vita», racconta al telefono il terzo figlio Emanuele, ex deputato del Pd. «Mio padre era una persona totalmente segnata dal lager, in senso positivo e negativo. A prevalere, poi, è stato il primo aspetto, che ne ha segnato la matrice del comportamento per l’esistenza. Non ha mai avuto paura delle difficoltà, riassunte in quel messaggio imparato nei lager: “È nell’ora più buia della notte che l’alba è più vicina”».
Un uomo che ha saputo trovare la forza di ricominciare, dopo l’inferno...
«Aveva una grande forza di volontà, che lo ha guidato nella vita, nello studio, nel desiderio di ricostruire una famiglia che non aveva più, lui che a 18 anni rimase orfano. Con l’arrivo del terzo figlio, io, ha deciso di seguire la promessa fatta a sua madre di laurearsi. Così, nel 1963 si è iscritto a Lingue e letterature straniere alla Bocconi: con una moglie e tre figli a carico, lavorò di giorno e studiò di notte. Ad aiutarlo, o “cullarlo” diceva lui, il ritmo della lavastoviglie. Nell’album di famiglia una foto che lo ritrae d’estate, a Forte dei Marmi, mentre studia davanti alla cabina e noi facciamo il bagno. Era forte in lui l’etica del lavoro: non l’ho mai scritto, ma diceva spesso “prima il dovere e poi il piacere”, quando ad esempio non facevo i compiti delle vacanze».
Ironia e intraprendenza hanno sempre caratterizzato il suo approccio al lavoro.
«Sì, una volta – ricordo – rispose a un’offerta di lavoro a Milano: a lui che aveva studiato da perito tessile venne chiesto di testare un prodotto. Scelse di percorrere a piedi, andata e ritorno, tutto corso Buenos Aires, e intervistare ogni esercizio, in un periodo in cui ancora non esistevano le ricerche di marketing».
Terminata la guerra rivide a Firenze un’amica d’infanzia di cui ricordava le lunghe trecce, che divenne sua moglie (Rina Lattes, ndr). Cosa li ha uniti fino alla morte, a due mesi di distanza?
«In mamma ritrovò una figura femminile da amare, per la vita. Una persona che poteva prendere il posto di sua madre, abbracciata l’ultima volta sulla banchina di Auschwitz il 23 maggio 1944, con cui ricostruire il nucleo di una famiglia strappata, distrutta. Una donna che chiamava “madre”, e che fu capace di supportare, con amore, un uomo così sofferente, ma anche forte».
Che nonno fu?
«Un nonno amorevole che nei nipoti vedeva il ritorno alla vita e il rinnovamento della nostra genia. Come quando mio fratello maggiore si sposò in Israele nel 1973, avevo dieci anni, e tornato si diede da fare per organizzare una casa per lui e la moglie, israeliana. Era la prima volta che tornava in patria: si inginocchiò e baciò la terra davanti alla scaletta dell’aereo, a Tel Aviv. Diceva che se ci fosse stato lo Stato ebraico allora, nulla sarebbe successo...».
H a avuto bisogno di tempo e distacco per raccontare il suo vissuto: come rispondeva alle «curiosità» di lei bambino sul numero A5405 tatuato sul braccio?
«In famiglia papà non parlava molto dei campi di sterminio: io avevo appreso tutto dai libri in casa e dalle atroci foto che contenevano. Del tatuaggio diceva: “Lo annotano i padri smemorati, è il telefono di casa”. Ha cominciato a raccontare una sera del 1977, in una conferenza in una sala della comunità ebraica. Avevo 14 anni. “Mi sono portato dietro una valigia e la aprirò per voi”, disse. Seppi lì i primi particolari di fuga, arresto, deportazione. Fu uno dei primi sopravvissuti a scegliere una comunicazione pubblica: il racconto della Shoah, non solo in Italia, è iniziato molto tardi. Fisicamente, improvvisamente, quel papà su quel palco, da padre privato diventò personaggio pubblico».
Un ricordo personale che ancora le regala un sorriso?
«Amava la socialità. Rideva molto a vedere Stanlio e Ollio, ma anche i film di Charlie Chaplin. Ricordo le serate insieme sul divano».
A parlare di suo padre è anche un profumo, che ha continuato a tenere stretto.
La moglie «mamma»
In mia madre ritrovò una figura femminile da amare. La chiamava «mamma». La sua l’aveva persa nel campo di concentramento
«Sì... quello delle saponette Lifebuoy, all’arancia: le impilava nel bagno, le prendeva a Livorno al mercato degli americani. Gli ricordavano il profumo dell’uomo che lo salvò dal campo, il primo ad entrare nella baracca. Quel profumo di pulito era un filo con il momento della liberazione, la rinascita. Un profumo che, ancora oggi, mi tiene legato a lui in modo inspiegabile: è inciso nelle mie cellule cerebrali. Regalai la stessa saponetta a mio figlio grande, come portafortuna per gli esami universitari, da tenere con sé. E ha funzionato».
In un libricino annotava gli incontri nelle scuole e le testimonianze pubbliche: arrivò a contarne quasi mille. Che valore dava alla memoria?
«La sua era la memoria di un sopravvissuto che, come altri, chiedeva di non dimenticare e di non essere dimenticato. Di non dimenticare che tanti erano stati torturati, uccisi, violentati, ma erano sopravvissuti. Anche Primo Levi aveva questo cruccio: quello di non essere creduto, come gli ripetevano le SS».
E oggi, a chi è affidata?
«Restano pochi sopravvissuti: ormai siamo nella post-memoria, tenuta viva dalle seconde generazioni e da chi vuole esserne partecipe. Lui, come altri, ci ha affidato il compito di estrapolare delle lezioni dalla memoria, attualizzandole, e trasformarle in un codice morale, di comportamento e giudizio. Ho seguito la sua strada: tra novembre e dicembre ho tenuto 60 incontri, con il piacere di confrontarmi anche con le domande più difficili su quello che accade oggi».
Dopo la liberazione, fu la Milano industriale a offrirgli una nuova occasione. E si lasciò alle spalle una Firenze che non riconosceva più. Cosa hanno rappresentato queste due città?
«Era un uomo straordinariamente aperto al futuro: insegnava a non combattere il cambiamento. Firenze per lui rappresentava l’Europa matrigna, la tomba della nostra famiglia. L’America era il nuovo, una terra vergine rispetto al cancro rappresentato da fascismo e nazismo, la terra dei liberatori. E quando si trasferì a Milano, quella era la città italiana più simile all’America. Poi, quando gli fu offerta la possibilità di un lavoro in America, decise di rinunciare per amore di mia madre».
Una domanda che non ebbe mai il coraggio di fare o a cui non rispose?
«Avrei voluto chiedergli di più di suo padre, il nonno Olderigo, fascista, la cui memorialistica è meno enfatizzata nei racconti della nostra famiglia. Mio padre lo vide deperire, invecchiare nel giro di qualche settimana ad Auschwitz, come accadde a Sami Modiano con suo padre. Pensai che parlarne lo avrebbe fatto troppo soffrire».
Come prese il suo impegno in politica?
«Male. Non la amava, credo in parte, per la vicenda del nonno. Voleva seguissi gli studi fatti in architettura. Poi, quando divenni deputato, si appassionò al mio impegno».
E che rapporto aveva con la religione e l’ebraismo?
«Era legato a tradizioni e riti, in chiave laica. Cantava sempre per la comunità in occasione della Pasqua ebraica: era un’emozione poter cantare da uomo libero in ebraico, con la sua voce tenorile. In quel canto riviveva la liberazione dalla schiavitù del popolo e la riconquista di una libertà che a ogni Pasqua va celebrata. Una tradizione rimasta in famiglia».
Che eredità le ha lasciato?
«Come dice De Gregori, “la storia siamo noi”: sono i nostri comportamenti e le nostre scelte a determinare chi siamo. Mi ripeteva sempre di non avere paura. Aveva una grande umanità, rifuggiva dalle inutili polemiche. Mi ha insegnato che le relazioni umane sono il fondamento di ogni futuro».