14 dicembre 2023
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Biografia di Raina Kabaivanska (Raina Jakimova)
Raina Kabaivanska (Raina Jakimova), nata a Burgas (Bulgaria) il 15 dicembre 1934 (89 anni); bulgara naturalizzata italiana. Soprano. «Io sono stata etichettata per anni come pucciniana, e questo bastava a molte persone. A un certo punto non è più bastato a me. Ho amato moltissimo Puccini, è l’autore a cui devo di più e a cui forse ho dato di più, ma sapevo di poter fare anche altre cose. Saper dire di no (a se stessi prima che agli altri) è molto importante, ma lo è anche guardarsi intorno e non smettere mai di cercare» • «I miei genitori non erano musicisti, nella mia famiglia nessuno suonava e nessuno cantava, ma io evidentemente avevo qualcosa in più e di diverso. Ero attratta dalla musica». «Mia madre, donna razionale che insegnava fisica, mi ha inculcato un senso di disciplina che mi porto ancora addosso. […] Ero ragazzina, mi mise davanti a un pianoforte e dovetti imparare a suonare. Poi ho scoperto il canto e ho deluso i miei genitori dicendo che avrei voluto fare la cantante». «Al liceo ho iniziato a cantare nel coro, e il maestro ha scoperto la mia voce». «Mio padre era medico veterinario e scrittore, un artista che ben conosceva le esigenze dell’arte. […] La mia casa era frequentata da pittori, musicisti, scrittori… Si parlava anche, con grande curiosità e apertura mentale, di quella che a quel tempo era l’arte proibita. Mio padre capì la mia voglia d’imparare, di perfezionarmi e tentare la via del teatro lirico; non si oppose, e lo stesso fece mia madre». «Al Conservatorio di Sofia continua il suo percorso di studio cantando arie da opere famose come soprano e come mezzosoprano nel collettivo artistico dell’Armata del Lavoro. Si diploma al teatro dell’Opera di Sofia esibendosi nel saggio finale nella parte di Tatjana in Evgenij Onegin di Čajkovskij e nell’ultima scena di Un ballo in maschera di Verdi nella ruolo di Amelia» (Daniele Ceccarini). Nel 1958 «vinsi una borsa di studio per un corso al Bolshoi, ma andai dal boss locale, quello che decideva tutto, e gli dissi che preferivo l’Italia perché volevo studiare nel Paese del bel canto. Fui accontentata, e qualche giorno dopo partii per Milano con l’Orient Express, che era un treno orribile: altro che velluti e fascino come vediamo nei film. Partii con quattro valigie piene di riserve alimentari: salumi, formaggi, conserve, zuppe in scatola… Una comica. La propaganda comunista ci diceva che all’Ovest c’era la fame!». «Perché […] hai scelto l’Italia per perfezionare la tua preparazione come cantante? “In Bulgaria, da ragazza, avevo un amico che aveva costruito di nascosto una radio per ascoltare le notizie occidentali. Io non conoscevo nulla del mondo occidentale, non sapevo il nome di nessun cantante: il comunismo non permetteva di ricevere informazioni dall’Europa. Un giorno, per caso, con il mio amico, ascoltai una voce meravigliosa. Non sapevo che fosse Maria Callas, ma in quel momento decisi che io volevo andare nel Paese dove si cantava così”» (Donatella Danzi). «Nel 1958, quando sono arrivata in Italia, c’erano ancora i vecchi maestri che conoscevano la scuola vocale italiana. La mia prima maestra, Zita Fumagalli, aveva cantato per Leoncavallo e Mascagni; poi ho avuto Antonino Votto, Maestro della Scala e assistente di Toscanini, che dopo l’audizione disse: “Questa ragazza ha talento! Questa canterà alla Scala!”. E in quattro mesi mi ha portata ad esibirmi nel tempio della musica, dove Verdi e Puccini avevano presentato le loro opere. All’inizio non ero brava, ma loro mi hanno seguito sempre con amore, con attenzione, ed io ho riflettuto a lungo sulle loro parole e i loro consigli. […] Un altro nome che devo menzionare è Rosa Ponselle, che chiamavano “Caruso in gonnella”. Mi ha aiutata moltissimo nel fraseggio all’italiana. Da lei ho capito come intonare le vocali» (Massimo Carpegna). «Debutta a Vercelli nell’aprile del ’59 come Giorgetta nel Tabarro di Puccini. Poco dopo vince il concorso per entrare alla scuola dei giovani del Teatro alla Scala, dove riesce a perfezionarsi con il direttore Antonino Votto. Nel 1961, con l’assenso del direttore, debutta alla Piccola Scala nel Torneo notturno di Malipiero, e pochi mesi dopo è alla Scala in Beatrice di Tenda nel ruolo di Agnese accanto a Joan Sutherland» (Ceccarini). «“Io sono stata fortunata, perché quando iniziai a propormi in Italia […] ricevetti scritture appropriate. A Vercelli mi fu offerta Giorgetta (Il tabarro), forse un po’ ardua per una debuttante ma in linea con la mia formazione. Poi arrivarono Mimì a Sanremo e soprattutto Nedda, personaggio che – insieme a Desdemona – divenne il mio biglietto da visita. Fu nei Pagliacci che gli emissari newyorkesi mi ascoltarono, assicurando una svolta internazionale alla mia carriera. Al Met correvo per il palco a piedi nudi, consapevole del mio fascino di ventiseienne. La stampa mi premiò come migliore debuttante in loco, e il mio felice rapporto con quella città proseguì nei vent’anni successivi. Anche Mimì e Desdemona mi furono richieste in tutto il mondo: credo che a colpire fosse la mia freschezza giovane, in contrasto con i modelli più sontuosi che allora dominavano questi personaggi. Con Desdemona approdai al Covent Garden (dirigeva Solti) e nella San Francisco di Kurt Adler. Fui soffocata dai maggiori Otelli dell’epoca: Del Monaco, Vickers, Craig, McCracken". […] Da Mimì fioriscono presto Liù e Suor Angelica, fino a Manon Lescaut e Madama Butterfly. […] Oltre ai debutti londinesi e americani, la Kabaivanska vive nei primi anni ’60 un’intensa collaborazione con la Scala. […] Fece capolino alla Scala anche un grande personaggio verdiano: Elisabetta di Valois del Don Carlo, opera che la Kabaivanska aveva scoperto pochi mesi prima al Metropolitan di New York. […] "Non avrei mai potuto cantare Aida. Quanto al Ballo in maschera, in un momento di leggerezza avevo sottoscritto un contratto con la Scala. Mi sono fermata in tempo. Ci vuole per quei titoli un vero soprano drammatico". Fortunatamente tali remore non le impedirono di cimentarsi, ancora molto giovane, con Don Carlo e La forza del destino. […] Dopo Elisabetta e Leonora, arrivarono Il trovatore, illuminato dalla collaborazione con Karajan, il Requiem e Simon Boccanegra, a Washington nel fortunato allestimento di Abbado e Strehler. […] Gli anni successivi, quelli burrascosi a cavallo della Contestazione, conducono l’artista a nuove, determinanti conquiste di repertorio. Molte cose stanno cambiando anche nella sua vita: il matrimonio con Franco Guandalini (singolare figura di esteta del milieu modenese, regista, collezionista d’arte e d’ora in poi lucido, caustico, appassionato consigliere della consorte) e la nascita della loro bambina impongono un ridimensionamento alle scorribande nel jet set operistico e un distacco dalle scritture transoceaniche. Da questo momento l’Italia sarebbe diventata il centro d’azione della cantante. Negli stessi anni, però, cambiamenti radicali agitano il mondo dell’opera. Il ’68 travolge valori ed estetiche. […] L’ostilità dei nuovi intellettuali e il calo delle presenze fa vacillare il sistema produttivo, e la crisi è tale che alcuni (poi smentiti) considerano ormai prossima la fine dell’opera. […] La gloria internazionale, l’avvenenza fisica, l’immediatezza sapiente e fascinosa da vera star, così come un repertorio incentrato sui capisaldi della tradizione (Puccini e Verdi), la predisponevano all’amore di un pubblico che in lei riconobbe rapidamente la propria patrona, depositaria della tradizione melodrammatica e custode di una civiltà minacciata. Nel volgere di pochi anni, i frequentatori dell’opera si accorparono intorno a lei come un esercito, fedele, battagliero e vastissimo. Nella Kabaivanska, ormai signora delle folle, il pubblico italiano elesse la sua ultima vera “diva”, secondo un’accezione del termine che oggi si è persa. La naturale conseguenza fu un’evoluzione del suo repertorio verso personaggi più maestosi, simbolici, tragici. E così fu che colei che negli anni ’60 aveva conquistato il mondo come anti-diva giovane ed energica, la formidabile ragazza che aveva sgrassato Puccini di fronzoli, crinoline e lirismi al caramello, iniziò ad avvolgersi di manti e diademi, scoprendo in sé un’originale e suggestiva vocazione da tragédienne. […] Con rinnovata ricercatezza scenica, vaporosa e stilizzata fin nella magniloquenza, adagiata in mollezze da Art Nouveau, la Kabaivanska degli anni ’70 percorse una strada più allegorica che psicologica. […] In Tosca, Adriana, Madama Butterfly e Francesca, la cantante definì il suo storico contributo non in quanto “verista”, […] ma in quanto ideatrice di un inedito, soffuso, vagamente ansioso crepuscolarismo di fine millennio. […] Raina Kabaivanska si volse poco dopo a un linguaggio più arcaico, proto-romantico, immerso in quel pelago che un po’ arbitrariamente chiamiamo belcanto. […] I titoli belcantistici che sfiorò dal 1965 al 1973 furono Guillaume Tell a Buenos Aires, seguito a Catania da due eroine belliniane (Il pirata e Beatrice di Tenda) e, per finire, due Verdi giovanili, battaglieri e virtuosistici (Ernani e I vespri siciliani). Nonostante il successo, nessuno di questi approcci ebbe un seguito. […] Nel 1974 sarebbe arrivata Violetta, altra eroina connessa ai modelli primo-ottocenteschi. La Kabaivanska ne ricavò uno dei suoi personaggi più potenti e affascinanti (assecondata dal taglio registico di Mauro Bolognini). […] Furono, comunque, questi contatti con Bellini e il primo Verdi a preparare il terreno per la clamorosa rivalsa donizettiana degli anni ’80. […] Nel 1981 a Roma riportò alla luce, in prima novecentesca, Fausta, sorta di Fedra invaghita del figliastro; in seguito si appropriò di Elisabetta regina di Inghilterra, protagonista di Roberto Devereux. "Prima di firmare per questi debutti, ho studiato a lungo le partiture. Ho anche chiesto aiuto a Rodolfo Celletti, che di questo repertorio era considerato il massimo esperto. […] Quindi mi sono buttata: quelle due donne tormentate, incupite dagli anni e da sentimenti disonorevoli, mi hanno invitata a esplorare lati della mia espressività che in quella fase chiedevano di emergere". Tanto Fausta quanto Devereux rappresentano capitoli fra i più impressionanti della sua carriera. […] Il successo spinse alcuni teatri a giocare anche la carta della classicità: sia quella scultorea, ancora settecentesca, di Gluck, sia quella pre-romantica di Spontini. Nel 1984 vennero Armide a Bologna e La Vestale a Genova. Ancora una volta i successi furono clamorosi e, oltre a rinsaldarne lo statuto di maggiore primadonna in Italia, ne confermarono l’eccezionale versatilità di interessi. […] Siamo entrati nella seconda metà degli anni ’80. Raina Kabaivanska […] potrebbe appagarsi delle postazioni acquisite, e invece si sta preparando a compiere il balzo più estremo della sua carriera. Idolatrata dall’anima conservatrice del pubblico, l’artista tende ora la mano agli innovatori, offrendo la sua grandezza e l’enorme carisma all’intuito di dirigenti brillantissimi come Carlo Fontana e Carlo Majer e a registi considerati d’avanguardia (memorabili le sue collaborazioni con Luca Ronconi). Da questo momento, pur continuando a sostenere il peso di centinaia di Adriane e Cio-Cio-San (quest’ultima magari in tre diverse produzioni, lungo un arco di quindici anni, sugli spalti dell’Arena di Verona), il suo repertorio diventa un processo creativo sbalorditivo ed esaltante. Il primo segnale viene dal ’900, quello considerato difficile di Richard Strauss e Leoš Janaček. L’incontro per di più cade su titoli che sulla penisola non erano affatto i più eseguiti e popolari: Capriccio e Vec Makropulos [L’affare Makropulos – ndr], rispettivamente nel 1987 e nel 1993. […] Operazioni che potevano essere elitarie diventano fenomeni di massa. […] Dalla seconda metà degli anni ’90 l’ansia di nuove conquiste non trova riposo. L’immenso successo, che rimbalza nel mondo, di Capriccio e Vec Makropulos ha dato la stura a una frenetica ricerca di approdi, sempre più arditi ed esaltanti. […] Con Britten […] la Kabaivanska mette a segno un altro colpo da maestro, cimentandosi nell’istitutrice di The Turn of the Screw [Il giro di vite – ndr] (celebre ghost story tratta da Henry James) e realizzandovi una delle più stupefacenti performance della sua vita. […] Ugualmente sensazionale sarà il successivo debutto nella Voix humaine [La voce umana – ndr] di Poulenc su testo di Cocteau, in cui una donna al telefono implora il proprio amante – per un’interminabile notte - di non abbandonarla. […] A latere di questa spregiudicata “corsa al difficile” si collocano alcune immersioni – ugualmente stupefacenti – nel teatro considerato popolare: dapprima Die lustige Witwe [La vedova allegra – ndr] di Lehár, apoteosi dell’operetta viennese, poi addirittura un musical, Lady in the Dark, agitato esperimento americano di Kurt Weill. Ancora una volta le rotte della Kabaivanska sono senza precedenti. […] Ad apertura del nuovo millennio, la Kabaivanska affronta a Napoli la Kostelnička della Jenufa di Leoš Janaček, sotto la direzione di Vladimir Jurowski e, questa volta, nell’originale ceco. Il debutto è molto atteso, in quanto il personaggio della vecchia infanticida (che uccide il nipote, figlio del peccato, per scongiurare il disonore) è cavallo di battaglia di tante star nell’ultima stagione di carriera. Per la cantante […] è la prima occasione di calarsi nei panni di un personaggio apertamente anziano, che avrebbe potuto inaugurare per lei una nuova galleria di mature signore dell’opera. Stranamente l’occasione fu lasciata cadere, non contando qualche rada – seppure applauditissima – concessione: la contessa della Pikovaja dama [La dama di picche – ndr] e la prima priora dei Dialogues des Carmélites [I dialoghi delle Carmelitane – ndr] addirittura con Carsen. Interrogata, si schermisce col suo tipico tuffo scherzoso. "Sai com’è… oggi l’arte è tanta, la voce meno! In realtà ho moltissimi impegni che non mi lasciano respiro. Seguo i miei allievi non solo nelle aule del conservatorio; li promuovo, li aiuto a trovare scritture, li sostengo quando decollano. Tengo poi masterclass, intervengo a convegni, presiedo giurie di concorsi e collaboro con teatri. E non dimentichiamo il più recente personaggio del mio repertorio: la nonna!"» (Matteo Marazzi) • «“Le regole principali per allevare nuove ugole? Rifarsi all’antica scuola italiana che ora nessuno segue più. Ma io sì, perché appena arrivata da voi dalla Bulgaria ne ho sperimentato la bontà sulla mia voce. […] Nel 2002 Kabaivanska ha costituito (attingendo in gran parte a mezzi propri, “poiché è giusto restituire quel che si è ricevuto dalla vita”) un fondo per fornire borse di studio a giovani promesse della lirica. Dapprima riservato soltanto a bulgari, in seguito aperto a ragazzi di tutte le nazionalità, che hanno così l’opportunità di perfezionarsi con lei. “E, quando ne divento l’insegnante, poi non mi lasciano più. Nasce con loro un rapporto di maternità vera, un prezioso surrogato di quel che non ho potuto instaurare con mia figlia”» (Gregorio Moppi). «Io lavoro prima di tutto sulla tecnica, perché anche l’emozione nasce dalla tecnica» • «Avevo ventitré anni, cantavo al Metropolitan di New York nei Pagliacci. Venne Hurok, l’agente più noto degli Stati Uniti. Mi offrì contratti meravigliosi, ma io rifiutai. Non mi rendevo conto che restare liberi e fare da soli vuol dire fare contro tutti. […] Non dover dire grazie a nessuno è in ogni caso molto importante» (a Rino Alessi). «Io ho fatto pochissimi dischi: non sono addentro nel mercato del discografico. Credo che delle mie interpretazioni e del mio canto l’unica testimonianza valida siano le registrazioni prese dal vivo, perché […] il contatto vivo con il pubblico e l’emozione che si crea cambia tutto» • «È vero che è stata Butterfly per quattrocento volte? “Alla quattrocentesima avevo passato i settant’anni. Che vergogna, a quella veneranda età, far la parte di una quindicenne. L’ultima volta l’ho cantata in Arena. A fine recita, ventimila persone in piedi di fronte a me ad applaudirmi. Allora ho pensato di aver davvero combinato qualcosa di buono nella vita”. Tosca non l’ha cantata certo di meno… “Evidentemente Puccini mi era destinato. La mia maestra Zita Fumagalli, prediletta da Mascagni, era stata una celebre Cio-Cio-San”» (Moppi). «"Cio-Cio-San non è una giapponese: è una madre. Una figura drammatica universale (nella musica, il Giappone è un profumo). È un personaggio forte, di carattere: per questo lo amo. Per orgoglio e senso della dignità mi assomiglia". […] La prima volta? "A Philadelphia, nel 1964. […] Avevo paura di questo ruolo massacratore di soprani. Mi presi tempo per studiarlo. E per possederlo scenicamente lavorai tre mesi a New York con un attore kabuki. Mimavo ogni parola, ogni espressione. Progressivamente ho eliminato il superfluo: i gesti pedanti o non abbastanza forti"» (Angelo Foletto). «Regista della mia prima Tosca, che fu a Modena nel ’71, fu il mio attuale marito, il quale poi lasciò il teatro, e oggi fa il farmacista. Ed ero incinta di mia figlia quando con Tosca debuttai alla Scala» (a Leonetta Bentivoglio). «Raina Kabaivanska non interpreta Tosca. È Tosca. […] "Mi avvicinai a lei da buona seguace della scuola stanislavskiana, cercandone la verità interiore. E non riuscivo a venirne a capo: si tratta infatti di una creatura sempre sopra le righe, esasperata nei suoi sentimenti. Troppo gelosa, troppo triste. Poi ho capito che Tosca non è una donna qualsiasi. È una diva che recita sempre: davanti all’amante, davanti a Scarpia. E davanti alla morte: l’acuto prima di gettarsi dagli spalti di Sant’Angelo dà al suicidio una patina di narcisismo, e adombra un gesto esibito. Da diva, appunto. Dal punto di vista vocale, me la sono dovuta inventare di sana pianta: l’ho adeguata alla mia voce, che contraddice tutte le Tosche venuta prima di me, tutte vociona e note basse"» (Fulvio Paloscia) • «Occorre demolire uno degli equivoci più tenaci: l’etichetta di verista che – forse per la lunga frequentazione di Puccini e del ’900 storico – le è stata attribuita. Nulla in realtà è più distante da lei del verismo e di qualsiasi altra poetica che, più o meno apertamente, si ponga l’obbiettivo di mescolare il vero all’arte. In una delle nostre prime conversazioni, mi confidò apertamente: “Il verismo non mi piace. Non capisco come possa piacere. Non è fatto per me”. […] Per lei l’arte è sublimazione ieratica, non ossessione di autentico; è acuto e sofisticato cerimoniale che pone l’interprete su un piano più alto del verisimile. Se vuol definirsi artista, l’interprete – a suo giudizio – può affidarsi solo alla tecnica: nemmeno l’umana partecipazione ai dolori del personaggio è ammessa. “Se l’artista piange”, è solita ripetere ai suoi allievi, “il pubblico non piangerà”. […] "Non ho mai cercato affinità umane fra me e i miei personaggi, né ho mai inseguito legami fra le mie motivazioni e le loro. È un approccio che ritengo illegittimo, scorretto. L’interprete non deve confondersi con ciò che interpreta. Noi non ‘siamo’ un personaggio: noi ‘facciamo’ un personaggio"» (Marazzi) • «Soprano diva per vocazione naturale, seguita ovunque da gruppi scatenati di fedelissimi fan, artefice di una carriera ricca e lunga, costruita su una presenza teatrale intensa e una voce esuberante e duttile» (Bentivoglio). «Colta, sensibile ad ogni novità intellettuale, laureata in Filosofia e pianista, attrice di vigore drammatico, ironica» (Armando Caruso). «Raina Kabaivanska è la grande interprete che crea il personaggio. Il segreto di questa creazione è semplice: la Kabaivanska non divide il canto dalla recitazione. Cantare è per lei recitare. Ma per fare questo il canto va posseduto come una macchina perfetta che non s’inceppa mai: e ciò si ottiene solo con un lungo studio che affila le armi di una tecnica infallibile. Quando poi alla tecnica si uniscono l’intelligenza e la sensibilità di un’attrice, ecco che sulla scena si vede nascere un personaggio» (Dino Villatico) • «Il Roberto Devereux di Donizetti credo sia stato la mia più grande sfida sia vocale che teatrale, per una come me, considerata solamente come “pucciniana”. Sono stata molto criticata perché ho osato entrare in zone “off limits”, ma quello che ho cantato è quello che volevo fare e basta. […] Fedora è un’opera verso la quale ho sempre nutrito una grande avversione. e non ho mai ceduto a ogni tentativo di farmela cantare» (a Giorgio Bagnoli). «Uno dei miei rifiuti più sofferti è stata Lady Macbeth. Mi è stata richiesta in molte occasioni; ho anche inciso qualche brano. Eppure, tutte le volte che mi mettevo al piano a studiarla, erano le pagine virtuosistiche (ad esempio il brindisi) che finivano per dissuadermi. Anche al primo atto di Traviata i miei limiti nel canto fiorito mi irrigidivano. Il “Sempre libera” non era per me». «Rimpiange il palcoscenico? “Perché dovrei? Ero nata per cantare e l’ho fatto, moltissimo. Bene, male: non so. Comunque mi sono realizzata”» (Moppi).