22 dicembre 2023
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Biografia di Maria Tipo
Maria Tipo, nata a Napoli il 23 dicembre 1931 (92 anni). Pianista. Accademica di Santa Cecilia, Officier de l’Ordre des Arts et des Lettres in Francia.
Titoli di testa «Maria Tipo non è soltanto una pianista completa. Ma il talento più eccezionale della nostra epoca» (Arthur Rubinstein)
Vita «Mia mamma era pianista e compositrice. Sicché io ho sentito musica prima di nascere: pensi che io sono nata alle 3 di notte e mia madre aveva suonato fino a mezzanotte, con il pancione. Probabilmente ho ereditato il suo talento. All’età di tre anni e mezzo, sono andata io al pianoforte, da sola, e ho cominciato a trovarmi le musichette, dei motivi, le scale. Sentivo gli allievi della mamma che dava lezioni e ho cominciato ad imitarli. Una sera la mamma è tornata a casa e ha sentito suonare il pianoforte. Ha chiesto a mio padre di andare a vedere chi fosse: ero io che mi ero sistemata i cuscini perché non arrivavo alla tastiera e avevo suonato, pare, tutto il pomeriggio. La mamma ci aveva provato con le mie sorelle maggiori ma aveva rinunciato. A me non aveva ancora pensato perché non si mette al piano un bambino di tre anni e mezzo. A quattro anni feci il mio primo concertino fra gli allievi. Suonai un brano della Sonata op.49 di Beethoven. Quando vedo dei bambini di quattro anni, mi chiedo ancora: come facevo? Per fortuna non fui sfruttata come enfant-prodige. Studiavo seriamente e ogni anno suonavo per gli amici di famiglia in salotto e mi meravigliavo che la gente si commuovesse ad ascoltarmi: per me era così facile». La teoria musicale l’ha studiata più avanti? «Sì, sempre con la mamma. Feci il quinto prima della guerra. Prima del diploma, però, partecipai al Concorso di Ginevra: avevo 16 anni e qualcuno decise che ero pronta per un concorso internazionale. Andai e vinsi. Quando tornai a Napoli mi diedero il diploma ad honorem». Quindi non ha mai frequentato il Conservatorio? «No, mai. Ho avuto la fortuna di trovare in mia madre una musicista completa che mi ha trattato come un’allieva normalissima, non come un fenomeno. Ero una ragazzina dotata che studiava, studiava: solo al Concorso di Ginevra presi coscienza del mio stato, e da quel giorno cominciai uno studio ed un approfondimento della musica che mi investiva in prima persona, perché, improvvisamente, c’erano i concerti da fare» […]. Quali furono i primi contatti con altri musicisti? «Il primo fu con Alfredo Casella: quando avevo nove anni mia madre, che era molto critica, volle portarmi da lui. «Io sono la mamma, forse stravedo». Casella mi ascoltò e disse “Non perdere tempo, devi fare subito Beethoven, subito le grosse sonate, Liszt, gli studi di Chopin”. Dopo qualche anno, prima del Ginevra, studiai un intero anno con lui a Roma. Molto repertorio, i classici e soprattutto Mozart. Tutto il lavoro sul suono che avevo fatto a casa, con lui venne confermato e portato a perfezione. Purtroppo morì, e allora continuai per un po’ con Guido Agosti, un altro grandissimo maestro. Poi venne il concorso e quindi la carriera» […]. Come si svolse il Ginevra? «A Santa Cecilia c’era la possibilità di vincere una borsa di studio per coprire le spese del Concorso: andai ma non la vinsi. Tutti dicevano che suonavo benissimo ma che non avrei mai potuto partecipare a un concorso così grosso. Mia madre non si diede per vinta e organizzò un concerto privato al Cenacolo Belvedere; dopo il concerto fu organizzata una specie di colletta per pagarmi le spese del concorso. Ci andai con una responsabilità enorme. Per fortuna vinsi all’unanimità». Qualche ricordo particolare di quella esperienza? «Mio padre aveva seguito coscienziosamente le prove di tutti gli altri concorrenti e si era accorto che tutti suonavano Bach in modo molto diverso da me. Io l’avevo lavorato molto con mia madre, con tempi originali, accenti particolari: lei mi disse di suonare come avevo sempre fatto, ma di osservare la giuria mentre suonavo Bach. Appena cominciai la Seconda Partita in do minore con i miei tempi larghi, li vidi guardarsi in faccia. Era già un buon segnale. Continuai con la Seconda Ballata di Chopin ed il resto del programma. Alla fine la giuria si alzò in piedi ad applaudire: una cosa straordinaria, era successo solamente per Michelangeli qualche anno prima». Chi c’era in giuria? «Ricordo Malipiero, il compositore, ed Edwin Fischer, che a mia madre disse: “Pochi concerti, signora, mi raccomando. Musicalmente nessun consiglio, è perfetta così com’è”». Cosa si vinceva? «Una somma in denaro molto modesta. Poi qualche concerto in Italia, non molti, per fortuna. A Ginevra mi avvicinò un famoso impresario americano, lo stesso di Friedrich Gulda che aveva vinto qualche anno prima e che mi voleva per una lunga tournée in Sud America. Mia madre reagì “Cosa? Mia figlia in America? No, si toma a casa a studiare, punto e a capo”. Ci rimasi molto male, ma aveva ragione. Fino ai 20 anni feci pochi concerti, magari pagati poco, ma solo quelli giusti, a Trieste, Roma, Milano. Quando avevo 20 anni mio padre tornò a casa col bando del Concorso di Bruxelles dicendo: questo fa per te, c’è anche un concerto da imparare in 8 giorni, un pezzo moderno in due mesi. Vinsi solo il terzo premio, ma in commissione c’era Rubinstein che dopo il concorso mi disse: “Qui ci vuole lavoro, comincia l’America sul serio, non sei più una ragazzina”. Parlò con il suo impresario Soul Hurok, il quale dopo un’audizione a Parigi mi scritturò immediatamente. E lì è cominciata la botta: per dieci anni ho fatto la concertista a tempo pieno. Tournées incredibili. Dai venti ai trent’anni ho fatto solo concerti in tutto il mondo, a ritmi massacranti. La mia vita di donna non esisteva quasi più. Un anno sono stata quattro mesi in America per fare 60-70 concerti. Prima il Nord America, poi il Sud America, sempre in viaggio, aerei, bagagli, mai un attimo di tregua, per anni non ho conosciuto l’estate. Grande successo, grandi concerti, grande soddisfazione, però a un certo punto mi sono chiesta: deve essere così tutta la vita? Fare la valigia e partire? Suonare e viaggiare? Facevo degli incontri importantissimi e il giorno dopo si ripartiva... No, non era possibile. Bisognava vivere, avere dei guai, avere dei figli, un marito, insomma, una vita normale. Dopo i trent’anni la mia è stata una lotta continua per riappropriarmi della mia vita privata». Ricorda qualche incontro particolare di quel periodo, qualche direttore d’orchestra con cui ha suonato? «Molti che non ci sono più, purtroppo. Ernest Ansermet, con cui suonai in Eurovisione da Ginevra il Terzo di Prokofiev, Karl Böhm, importantissimo perché i primi concerti di Mozart li ho suonati con lui. Non mi diceva niente, solo che era perfetto come io suonavo Mozart. Mi ascoltò a Napoli e mi disse: “Devi assolutamente venire in Germania a far sentire ai tedeschi come si suona Mozart”. Oggi consideriamo Böhm un interprete molto rigido, molto “tedesco”, ma a lui piaceva il mio Mozart “latino”. Ho suonato anche con il grande Erich Kleiber, con Jonel Perlea, con cui incisi un disco per la Vox, con Sir John Barbirolli, con Fritz Reiner, con cui debuttai nel Quarto Concerto di Beethoven a Chicago. Non ho nulla da raccontare su questo grande, perché a lui sembrava fantastico che io suonassi così. Era un uomo di poche parole e di gesti piccolissimi» […]. «Ero molto aperta, molto pronta ad apprendere qualunque cosa. Certo, ispirazioni da altri artisti le ho ricevute, da Rubinstein per esempio, che per me era sempre grande». Lo ha conosciuto bene? «Sì, l’ho conosciuto a Bruxelles dove era in giuria. Alla fine mi disse: “Per me lei era il primo premio. Però, mia cara, le colleghe donne (Marguerite Long e Magda Tagliaferro) probabilmente non hanno votato per lei. Il vincitore? Lo conosco già, un gran pianista, però per me la rivelazione del concorso è lei, con quel suono!”. Dopo la premiazione volle ascoltarmi ancora privatamente: gli suonai molti pezzi che non erano in concorso per tutto un pomeriggio». Le diede qualche consiglio sulla carriera? «L’unico consiglio fu di “andare in America, ma dalla porta grande”. Lo rividi a New York e poi due volte a Parigi. Una volta era a Firenze e venne a sapere che avevo avuto una bambina e che l’avevo chiamata con lo stesso nome di sua figlia. Alina (ma in realtà era in onore di una mia cara amica di Trieste). Passò dal fioraio e mi mandò un grandissimo mazzo di rose con un biglietto: “Ho saputo che hai avuto questa bambina. Alina, è meraviglioso!”. Era un uomo particolare. Dopo la sua morte sono rimasta molto affezionata a sua moglie Nella. Quando suono a Parigi, lei viene sempre ad ascoltarmi». Quanti concerti riusciva a fare in quel periodo? «Anche 150 per anno, in tutti i paesi, in tutte le università americane, con tutte le orchestre. Troppi. Certe volte tornavo in Italia e pensavo: come, fra pochi mesi si comincia di nuovo? Vedevo che mi mancava il tempo di preparare le cose come le volevo io. Certe volte partivo e sentivo di non essere pronta». Quindi a volte ha conosciuto la paura? «La paura sempre, ci convivo con la paura!». Non lo si direbbe ascoltandola in concerto. «Perché non lo mostro» […]. Qualche volta si è tirata indietro per la paura? «Mai, se succede una volta poi ti succede sempre. No, è una sfida. Gli ultimi dieci minuti prima di entrare in scena sono tremendi. Certe volte pensi che sarà un disastro e allora speri che succeda qualcosa, che il concerto venga annullato: mancherà la luce, verranno a dirmi che il concerto non si fa. E quello sarebbe un sollievo alla paura». […] Sente la necessità di suonare in pubblico? «No». La risposta la delude? «È interessante perché credevo che fosse nata per suonare in pubblico. Io no, l’ho fatto perché dovevo farlo, perché mi ci sono trovata dentro molto giovane, perché quella era la mia vita, il mio lavoro. Non ho saputo fare altre cose. Mi sono detta spesso: se fossi molto ricca, forse lascerei. Mi ha sempre molto pesato tutto il contorno: i viaggi, il fatto di trovarmi sempre in un posto diverso. A me piace stare nel mio cantuccio. Ho fatto tutto con sforzo. Poi il fatto di mostrarmi in pubblico non mi è mai piaciuto» […]. L’artista pubblico dovrebbe provare piacere nel suonare. «Certo, quando suono mi piace molto, ma il farlo davanti agli altri è un’altra cosa. Le gioie che io provo da sola, quando scopro le partiture, le suono e poi studio per farle venire bene, questo è un momento meraviglioso per me. L’altro no, è una responsabilità». Potrebbe stare senza musica? «Tutto si può fare. Certo, non mi ammazzerei, l’ho sempre pensato che può venire un momento in cui potrei non suonare più. In questo non mi illudo: la musica per me non è una droga». Cosa le fa superare tutte le difficoltà della carriera? «Il denaro, la fama, l’applauso? Oppure l’amore per la musica? La consapevolezza che in fondo io ho ricevuto delle doti in eredità, non è né una colpa, né un merito. Sono nata per fare questo. E lo faccio con forza di volontà, di carattere». Quali sono i principali problemi per una donna concertista? «L’uomo può pensare alla carriera al 100%; la donna invece è nata per fare altro, la famiglia, quindi se per caso ha del talento, deve fare l’uno e l’altro. Io mi domando, quanti uomini avrebbero potuto fare quelle carriere che hanno fatto se avessero dovuto fare figli, badare alla casa, al marito, alle mamme, ai vecchi, ai nipoti? Noi non lo sappiamo ma chissà quante donne hanno rinunciato: per una che ne arriva ce ne sono 80 che restano indietro, di questo sono sicura». Quando incise il suo primo disco? «A New York, nel 1952, alla Vox Turnabout. Scelsero Scarlatti, che è sempre stata la mia specialità. In America lo aveva fatto solo Horowitz e la pianista brasiliana Guiomar Novaes. Mi diedero tre giorni per incidere. Bastò una seduta sola, perché suonai tutto di seguito, senza interruzione, 12 Sonate, perfette. I tecnici mi dissero che alla Novaes non erano bastati tre giorni per tre sonate, e io le avevo già incise. Fu un’esperienza elettrizzante. Il disco ebbe un grandissimo successo: lo hanno ristampato l’anno scorso in compact disc assieme ai due concerti di Mozart con Perlea». Ascoltò Horowitz in quel periodo? «Sì, certo». Si può dire che lei abbia appreso qualcosa da lui? «No. Non l’ho mai imitato» […] Si favoleggia che Michelangeli studi solo di notte. Perché, Martha Argerich no? «Comincia a mezzanotte, quando noi abbiamo salutato gli amici, e studia fino alle 6 del mattino. Poi va a letto e chi la vede più fino alle 4 del pomeriggio? Avendo questi ritmi per lei è tremendo andare a fare le prove con l’orchestra alle 10 del mattino, è come alzarsi alle 3 di notte. A me di sera mi piace leggere, mi piace parlare con gli amici. Ma non sono fissata. La musica mi piace da morire, però mi piacciono anche altre cose, il cinema, il teatro, la lettura, insomma mi piace vivere, stare da sola, stare zitta, pensare senza fare nulla, sola con i miei pensieri». Quando sente di non avere più bisogno dello spartito? «Per pigrizia certe volte. Certe volte non lo apro addirittura perché sento che può già venire; comincio e mi viene a memoria quasi naturalmente. Poi lo riapro per verificare qualcosa. Ma non mi sono mai imposta di imparare a memoria». Secondo lei per un pianista è importante suonare a memoria? «Mi pare di sì. Ci ho ragionato: ad una certa età la memoria si perde anche, soprattutto si perde quella recente. Per esempio io le posso suonare perfettamente delle cose studiate a 15 anni, a 20 anni, a 30, è come se fossero rimaste incollate. Quello che io ho imparato dai 30 anni ai 40 è semi-incollato, dai 40 ai 50 anni al 25%, dopo i 50 anni di quello che ho imparato niente resta incollato. Devo riprendere la musica. Suonare a memoria è bello perché è una conferma che la cosa la sai veramente, è tua». Richter dice che è ingiusto suonare a memoria perché si perde tanto tempo. «Richter può suonare come vuole, nessuno può permettersi di discuterlo. Lui invece si giustifica con quella dichiarazione che fa pubblicare sui programmi di sala: la trovo assurda. Io ho una figlia violinista che suona a memoria il quartetto. Fino a quando lo potrà fare, è molto bello. Certo un domani, quando avranno 50, 60 quartetti in repertorio, verrà un momento in cui non lo potranno più fare». Ha fatto musica da camera? «Per dieci anni ho fatto tutto il repertorio pianistico a quattro mani e per due pianoforti con Alessandro Specchi. Poi ho suonato con Salvatore Accardo e il suo Quintetto, con il Quartetto Amadeus e con Uto Ughi. Niente con il violoncello. Mi è mancata anche l’esperienza del Lied, e mi dispiace molto. Con Uto Ughi abbiamo fatto molti concerti, abbiamo inciso anche due sonate di Mozart. Con lui c’era in progetto l’incisione integrale delle Sonate di Mozart e di Beethoven, ma problemi contrattuali con le relative etichette ce l’hanno impedito. È uno dei grandi rimpianti della mia vita, perché con Uto mi sono trovata musicalmente bene, è un artista che adoro, e penso che anche lui si sia trovato bene con me». Quando ha cominciato a insegnare? «Dopo i trent’anni. Dopo il matrimonio ho insegnato al Conservatorio di Bolzano e poi per 15 anni a quello di Firenze. Poi l’ho lasciato perché non ho voluto rinunciare alla mia attività concertistica e alle master class. Poi ho insegnato a Ginevra. Oggi insegno solo ai corsi di Fiesole, nella Scuola di Piero Farulli». Si è mai trovata a dovere insegnare a qualcuno che proprio non sa come mettere le mani sulla tastiera? «Andrea Lucchesini l’ho messo io al pianoforte a sei anni. Faceva qualche canzonetta con una sinistra messa male, ma aveva già un orecchio straordinario. L’ho avuto in Conservatorio fuori orario perché a quell’età non si poteva prendere. D’accordo col direttore dicemmo: il ragazzino vale, teniamolo come uditore; io però gli facevo lezione lo stesso. Mi divertiva mettere al piano un bambino così dotato. È molto più difficile quando ti arrivano certi talenti che sanno già suonare ma che tecnicamente sono un disastro. Lì bisogna tornare indietro. E qualche volta ci si riesce». Parliamo della sua famosa incisione delle Variazioni Goldberg di Bach. Quando ha cominciato a suonarle? «Ho cominciato verso i 35 anni, senza pensare di portarle in pubblico. Fu determinante l’uscita del disco di Glenn Gould. Avevo ascoltato un’esecuzione anni prima al clavicembalo, ma non ne avevo afferrato la bellezza. Glenn Gould me le fece scoprire, poi divenni pazza per l’esecuzione della Landowska, finché decisi di studiarle. Poi qualcuno mi propose di farle in pubblico». Con tutti i ritornelli e senza intervallo? «Certamente. Capii subito che non si poteva fare che cosi. Qualche collega le suona senza ritornelli e magari fa seguire una Sonata di Schubert. Lo trovo assurdo. Pensi che una volta in Olanda ho dovuto pagare io il bar perché senza l’intervallo loro non potevano lavorare». Qualche anno fa ha intrapreso un imponente lavoro con la Fonit Cetra per l’incisione dell’integrale di Clementi. Per il pubblico lei è ancora un po’... «La Signora Clementi». Le pesa questa specie di etichetta? «No, mi piace, io sono un’innamorata di Clementi, penso che l’avrei sposato se fossi nata nella sua epoca. Ho sempre suonato Clementi, mi piace, lo trovo spiritoso, lo trovo intelligente; mi piace la sua maniera di affrontare il pianoforte, è il “Beethoven un po’ prima” e io sono molto fiera che sia italiano. Mi dispiace che gli italiani non lo suonino. Degli stranieri solo Horowitz l’ha amato e l’ha reso in un modo fantastico. Mi ero impegnata a fare l’opera completa, ma il lavoro si è fermato al quinto volume perché non c’erano più soldi». Coltiva qualche hobby? «La mia casa, i fiori. Amo gli oggetti, i mobili. Poi la montagna: ora ho una casa sull’Appennino pistoiese, a un’ora e mezza da qui. Ci muoio dietro. Ho amato le Dolomiti per una vita ma per avere una casa erano troppo lontane. Sull’Appenino invece ho conosciuto Cutigliano, un paesino medioevale da sogno, sui 700 metri. Io sto un po’ più in alto, sui mille metri. Un paradiso. Vorrei stare sempre lì». Una napoletana che ama la montagna? E il mare? «Il mare è stata la passione della gioventù, poi passa, viene un momento in cui bisogna meditare e il mare non aiuta a meditare» [Alberto Spano, La first lady del piano].
Amori Fiorentina d’adozione. Due matrimoni, con il chitarrista Alvaro Company e con il pianista Alessandro Specchi. Una figlia violinista, Alyna Company.
Titoli di coda «Amo il pianoforte e la musica, ma mi piace anche vivere».