la Repubblica, 25 gennaio 2024
Ritratto di Golda Meir la madre di Israele
«La pace sarà possibile solo quando i palestinesi ameranno i loro figli più di quanto odiano noi ebrei». È una delle frasi celebri di Golda Meir, leggendaria premier israeliana dal 1968 al 1974, insieme a Indira Gandhi una delle prime donne al mondo a diventare capo di governo e insieme a David Ben Gurion tra i fondatori di Israele. «Il giorno in cui si scriverà la storia della nostra nazione, si dirà che è stata un’ebrea a permetterci di venire al mondo», diceva quest’ultimo, alludendo all’appassionata campagna con cui la sua discepola aveva raccolto fra i membri della comunità ebraica americana i milioni di dollari necessari a comprare le armi per la guerra d’indipendenza che stava per scoppiare contro gli arabi.
Il titolo della biografia che le dedica la giornalista e scrittrice Elisabetta Fiorito, Golda. Storia della donna che fondò Israele (Giuntina), non potrebbe dunque essere più appropriato. Il caso, o, meglio, un crudele destino, ha voluto che il suo libro abbia anche un forte riferimento all’attualità: perché l’aggressione di Hamas che ha colto Israele completamente di sorpresa il 7 ottobre scorso evoca il ricordo di un simile attacco arabo a sorpresa, quello della guerra dello Yom Kippur nel 1973, quando Golda era primo ministro. Anche allora lo Stato ebraico vacillò in preda allo shock. Un anno dopo, Meir diede le dimissioni. Sei anni più tardi, il suo successore Begin firmò la pace con l’Egitto, primo Paese del Medio Oriente a riconoscere Israele. Chissà se la storia si ripeterà anche per Netanyahu e per i palestinesi. Di certo questo è un buon momento per ripensare a questa indomita figura, che ha lasciato un segno indelebile nella storia israeliana e mondiale, ricordata pochi mesi fa anche dal filmGolda, in cui è interpretata da Helen Mirren.
La guerra dello Yom Kippur e l’anno precedente il massacro di atleti israeliani da parte di un commando palestinese alle Olimpiadi di Monaco (l’altro evento che segnò il suo periodo al potere, innescando la lunga caccia agli autori della strage raccontata pure da Steven Spielberg in Munich), la resero scettica sulla possibilità della pace con gli arabi. Dopo che Begin strinse la mano all’egiziano Sadat al summit di Camp David se ne uscì con un’altra delle sue famose battute, «non so se meritassero il premio Nobel per la pace, ma di sicuro l’Oscar sì». In seguito, tuttavia, strinse a sua volta la mano a Sadat. Il bel libro di Fiorito ricostruisce fra l’altro i momenti in cui la sua vicenda si è intrecciata con l’Italia. Un capitolo narra l’incontro a New York nel 1971 nell’ambito dell’assemblea generale dell’Onu con l’allora ministro degli Esteri Aldo Moro, uno dei fautori del patto segreto, poi confermato dall’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, in base al quale l’Olp si impegnava a non compiere attentati nel nostro Paese in cambio del tacito assenso ai palestinesi a svolgere attività in Italia senza rischio di venire arrestati per terrorismo.
«Vi abbiamo venduti», rivelò Cossiga in un’intervista a un giornale israeliano. «La formula era semplice, l’Italia non si intromette negli affari dei palestinesi che in cambio non toccano obiettivi italiani». A un certo punto dell’incontro Moro si lancia in una dellesue complicate interlocuzioni sulla possibilità che Israele, in cambio di un’eventuale pace con gli arabi, riammetta sul proprio territorio una parte di quei profughi palestinesi costretti a fuggire nella guerra del ’48: la questione del “diritto al ritorno”, inteso non come ritorno a un futuro stato di Palestina, bensì ritorno a Tel Aviv, alle città e alle case lasciate in quello che è ora lo stato di Israele, richiesta su cui molto tempo dopo si impunterà Yasser Arafat nei negoziati del 2000, facendo tragicamente fallire la migliore offerta possibile di pace e autodeterminazione per il suo popolo. «Mai» risponde Golda a Moro. «Sa a cosa ho assistito io da giovane? Gli arabi uscivano la notte dai loro villaggi e si appostavano vicino ai kibbutz per sparare a tradimento ai nostri. Avvelenavano i pozzi e seppellivano mine sulle nostre strade. Mai permetterò che queste cose si ripetano. Mia figlia ha dovuto imbracciare il fucile e andare a battersi contro gli arabi per impedire che le massacrassero i figli. Io non accetterò mai una soluzione che costringa la figlia di mia figlia ad andare anch’essa a combattere per salvare sé stessa e le generazioni che verranno». Parole che suonano preveggenti di quello che ha fatto Hamas nei kibbutz del sud di Israele il 7 ottobre e della successiva guerra di Gaza.
Ci sono pagine sull’amicizia con Pietro Nenni, così descritto da Golda: «Uno degli individui migliori che esistano al mondo, vi è una tale rettitudine in lui, una tale umanità, un tale coraggio». C’è l’incontro in Vaticano con Paolo VI, che la esorta a maggiore misericordia verso gli arabi: «Santità», risponde al pontefice, «la prima memoria della mia vita è un pogrom contro gli ebrei. Quando eravamo misericordiosi, quando non avevamo una patria, quando eravamo deboli, siamo stati portati alle camere a gas».
C’è la descrizione fatta da Oriana Fallaci, venuta a Gerusalemme per intervistarla: «Una premier che abita da sola, che si cucina da sé e che pulisce sempre dopo una cena affinché la ragazza che la aiuta nelle faccende domestiche non trovi piatti e bicchieri da lavare il giorno seguente».
Infine, quando nel 1978 Meir muore, a 80 anni, c’è il magnifico racconto del funerale, firmato da Arrigo Levi sulla Stampa: la lenta, silenziosa sfilata di una immensa folla che riconosce nell’ex premier «qualcosa di più di un leader politico». Per fare la pace, scrive Levi, «nella coscienza di questo strano Paese che prima non c’era bisognava anzitutto esistere: senza Golda e altri come lei, le città, le strade, le macchine, i giovani, semplicemente non ci sarebbero. Questo è il significato della veglia per la nonna di Israele».