La Stampa, 25 gennaio 2024
L’importanza della matematica
Di matematica ormai so molto poco. E so di sapere molto poco perché mi capita di incrociare formule che una volta sapevo risolvere e adesso posso solo riconoscere come qualcosa con cui una volta avevo grande familiarità. Un amico del cuore del liceo che non vedo più da tanti anni. Questa l’impressione. E dunque quelle formule mi procurano una grande allegria e, insieme, una grande nostalgia. So ancora dire se un certo teorema riguarda l’analisi, l’algebra o la geometria o le intersezioni tra le grandi branche delle matematiche, certe volte, nei treni regionali, incontro studenti e studentesse che discutono della convergenza di una serie, e mi capita di conoscere la risposta, ma non sono più in grado di sapere perché la risposta è quella, e non so giustificarla. Un amico del cuore del liceo che non vedo più da tanti anni e il cui volto, improvvisamente, riconosco tra la folla. Non so da dove arriva e non so dove sta andando, ma lo riconosco. E dunque, anche qui il sentimento che provo è allegria, stupore e nostalgia.
Il primo superpotere della matematica – proprio quando i superpoteri se ne sono andati – è accettare di perdere i concetti che non ci servono e non utilizziamo. Che mi pare, ribaltandolo, il superpotere di prestare attenzione e tempo alle cose che vogliamo tenere con noi, e con le quali vogliamo mantenere una confidenza. Dico cose e penso anche a persone. Accettare di non poter stare vicino distrattamente alle cose e alle persone che ci interessano è un superpotere che la matematica sviluppa. Per essere ancora più stringati, il primo superpotere della matematica è l’attenzione.
La matematica viene infatti spesso presentata come la disciplina della regolarità. Il matematico è un nerd. I matematici pensano in formato Excel. I matematici vivono con la testa tra le nuvole. I matematici sono soprattutto uomini. Perché i maschi sono più portati per la matematica e, in generale per le discipline scientifiche. Nessuna di queste asserzioni, pure se statisticamente significative – le abbiamo ascoltate, ripetute o addirittura pensate – è vera.
Quantomeno esistono i controesempi a queste affermazioni. Un controesempio è un esempio, un caso particolare che dimostra che una certa teoria generale, una congettura, è falsa. Ecco, io sono il controesempio alle affermazioni che gli uomini sono più portati delle donne per lo studio delle matematiche, perché è vero che l’ho dimenticata ma è vero anche che l’ho saputa. Ed è vero pure come ha scritto Yourcenar – e nessuno può dubitare che gli scrittori e le scrittrici nelle pagine che scrivono non desiderino altro che la verità – la memoria si nasconde al fondo dell’oblio.
Il controesempio è un concetto logico-matematico che mi ha dato grande allegria quando l’ho imparato. Pensate che forza rivoluzionaria dà il concetto di controesempio, e anche che forza ontologica, di esistenza. La certezza, e se non la certezza la possibilità – che è ancora meglio – di vedere oltre ciò che sembra l’immutabile status quo. I controesempi stanno lì a ricordarci che tutto può essere cambiato e tutto può essere discusso. Questo è l’altro superpotere della matematica, l’idea che niente sia definito. La matematica non è infatti la disciplina della regolarità, sì, lo è, ma dopo, in primis è la disciplina delle metamorfosi. Perché dopo aver esercitato all’attenzione, esercita all’accettazione e allo studio del cambiamento, delle variazioni.
Quando ti senti solo o ti senti sola, forse non lo sei, semplicemente rappresenti il controesempio. O questo mi dicevo quando non mi invitavano a uscire. Il controesempio può essere un grande conforto e addirittura, a dar credito agli intuizionisti, il controesempio è l’unico modo in cui si può capire che una certa teoria generale è vera. È vera se ammette un controesempio. La sto facendo molto facile perché i controesempi mi hanno sempre molto entusiasmata.
Abbandonando con dispiacere i controesempi volevo concentrarmi su un altro superpotere della matematica, assai utile, al pari dell’attenzione e dell’accettare i cambiamenti, anche in ambiti molto differenti da quelli matematici (se ne esistono, cosa della quale non sono in effetti convinta, non solo perché credo a Galileo Galilei e al suo aver notato ne Il Saggiatore che il libro dell’universo è scritto in caratteri matematici, ma proprio così per uno scetticismo giovanile che non mi è passato nemmeno adesso che sono una signora di mezza età, presbite).
Uno dei superpoteri della matematica è l’errore. L’errore e il fallimento sono un grande superpotere della matematica.
Nel momento in cui Bruno De Finetti, grande matematico italiano, osserva che nella valutazione di un certo fatto è fondamentale l’attribuzione della causa, del perché, tutto cambia rispetto all’errore. La differenza fondamentale da rilevare è nell’attribuzione del “perché"- scrive De Finetti – non certo perché il FATTO che io prevedo accadrà, ma perché io prevedo che il FATTO accadrà. De Finetti dice, anche qui semplifico, come per il controesempio, che l’incertezza non è eliminabile, è solo misurabile. Il primo errore di valutazione nelle cose siamo noi. A vent’anni, non ero disposta ad accettarlo, non avevo ancora smantellato la sovrastruttura di certezze alla quale davo il nome di idealismo. Giustizia, fratellanza, libertà prima di tutto e verità anche, nonostante non mi fidassi del concetto. A vent’anni non ero disposta ad accettare che l’errore è la nostra caratteristica principale. Oggi mi pare confortante. Soprattutto che l’errore ci accomuni tutti, sia dunque un ulteriore elemento di vicinanza. Ognuno di noi sbaglia a modo proprio.
Dunque, la matematica, rispetto all’errore, è accogliente e sinonimo di perdonare è capire. Sia per perdonare che per capire ci vogliono tempo e intenzione. Ecco, l’intenzione, riguardo l’apprendimento, è qualcosa che viene spesso trascurato o relegato a elemento secondario. L’intenzione e il desiderio. Per cui torniamo all’inizio. Attenzione, accettazione del cambiamento e l’errore che siamo noi.