La Stampa, 25 gennaio 2024
Intervista a Edith Bruck
Finché avrò la forza di parlare racconterò ai giovani la mia storia. Io vado avanti perché la memoria è fondamentale, vitale. Anche solo salvare la coscienza di dieci ragazzi significa che la mia esistenza non è stata inutile». Edith Bruck, scrittrice, sopravvissuta ai lager nazisti, continua a portare nelle scuole la sua testimonianza per non dimenticare l’orrore della Shoah. Nata in un piccolo villaggio di contadini in Ungheria, a 13 anni, nel maggio del ‘44, con il padre, la madre e altri familiari, Edith Bruck viene strappata dalla sua casa e deportata in un ghetto al confine con la Slovacchia. Da lì ad Auschwitz e poi a Kaufering, Dachau e infine a Bergen Belsen fino al 15 aprile del ‘45, quando il campo di sterminio è liberato dall’esercito britannico. Finita la guerra raggiunge la sorella a Budapest e comincia il suo lungo viaggio: prima nell’allora Palestina, poi di nuovo in Europa, ad Atene, a Zurigo, a Napoli e a Roma, dove vive dal 1954.
Oggi assiste incredula e attonita a un mondo costantemente in guerra, il suo incrollabile spirito da intellettuale impegnata la spinge a denunciare le ingiustizie, e a mettere in guardia l’Italia e l’Europa perché «l’unicità della Shoah venga preservata», sottolinea. La strumentalizzazione di chi pensa di «paragonare la Shoah al dramma di Gaza mi fa soffrire. L’antisemitismo è ancora molto presente nella nostra società: gli ebrei sono accusati di una colpa collettiva. Ci dicono “voi” e ci accusano delle politiche del governo israeliano, mi chiedo cosa c’entri un ebreo italiano o francese con quel che decide Netanyahu». Il suo ultimo libro, edito da La nave di Teseo, è uscito in questi giorni, si intitola I frutti della memoria e raccoglie le lettere e i disegni degli studenti incontrati da Bruck negli ultimi anni.
Quali sono i frutti della memoria?
«La speranza è il frutto più dolce. Questi ragazzi che ho incontrato nelle scuole hanno capito quel che è accaduto e hanno giurato che non diventeranno fascisti. I giovani ascoltano anche con gli occhi, hanno bisogno di sapere perché oggi purtroppo non hanno molti rapporti con i genitori e con i nonni, sanno qualcosa degli orrori della Shoah grazie al cinema, però la fiction non assomiglia mai alla verità. A scuola la storia si studia poco e male, quindi la consapevolezza che riescono ad acquisire è la mia consolazione».
Com’è nata l’idea di fare questo libro?
«Ho sempre ricevuto lettere e disegni, non volevo perderli. Mi dispiace aver dovuto fare una selezione e averne lasciati fuori molti, però non si poteva pubblicarli tutti».
Dalle lettere emerge che i giovani si sentono cambiati dopo averla incontrata e ascoltata.
«La loro voglia di sapere è per me un dovere morale, il loro ascolto mi riempie di speranza, che saranno migliori dei loro predecessori, che vivranno in pace. La mia vita testimonia che c’è sempre una luce nel buio a cui aggrapparsi. Non è mai tutto violenza e odio, mai tutto è perso. A ogni essere umano dobbiamo rispetto, mai rivalsa, vendetta, odio».
Come fa a toccare le corde degli studenti così nel profondo?
«È importante trasmettere le emozioni. Ci emozioniamo insieme, loro piangono e anche io piango. Vogliono sedersi accanto a me e baciarmi, e anche io li bacio. Ogni volta è una cosa bellissima. A loro racconto le luci nelle tenebre, perché non si può descrivere solo la sofferenza e il disastro, molte volte sono io imbarazzata a dire quel che hanno fatto e fanno gli uomini. Non parlo delle cose atroci, che ho visto nazisti giocare a calcio con la testa di un bambino. Alcune cose sono indicibili».
La luce nel buio e la fiducia negli essere umani sono temi ricorrenti nei suoi libri.
«Papa Francesco mi ha detto: “Edith, basta una goccia di bene per migliorare questo mare nero”. E io gli ho risposto che ho fatto una pozzanghera».
Al Pontefice ha raccontato anche del soldato tedesco che ad Auschwitz le ha dato un guanto bucato.
«Quando è venuto a trovarmi a casa il Papa mi ha chiesto: “In quel buco nel guanto cosa c’era?”. “La vita”, gli ho risposto».
Non prova mai rancore o vendetta?
«Mai, sono totalmente libera, non c’è spazio in me per sentimenti di vendetta e odio. È la mia salvezza, io non ho odiato neanche i nazisti, mi facevano pena per la loro disumanità. Ricordo i quattro ragazzini della gioventù hitleriana che nel campo, mentre eravamo alla disinfestazione, ci sputavano nelle parti intime raccogliendo più saliva possibile. Io li guardavo non con odio ma con pena, loro sono stati disumanizzati dalla scuola nazista. Testimonio dal 1959, da quando è uscito il mio primo libro. Non dobbiamo essere pessimisti, io credo che quando noi sopravvissuti non ci saremo più qualcosa rimarrà, i giovani faranno testimonianza per noi».
Quest’anno il Giorno della memoria si celebra in un clima diverso, c’è il tentativo di sovrapporre la Shoah ad altre tragedie. Gli studenti palestinesi hanno annunciato una manifestazione a Roma il 27 gennaio citando Primo Levi. Che cosa ne pensa?
«Nulla è paragonabile alla Shoah, allo sterminio di sei milioni di ebrei, bisogna preservare la sua unicità. È stata una fabbrica di morte programmata a tavolino. I nazisti hanno usato persino i capelli e i denti dei morti ammazzati. Mi fa soffrire sentire certi discorsi, così si attenua la gravità della Shoah».
L’Europa vive una recrudescenza dell’antisemitismo, perché?
«L’antisemitismo è ancora molto presente nella nostra società, dopo l’inizio della guerra a Gaza ho visto subito una colpevolizzazione collettiva degli ebrei, è una cosa tremenda. Ci dicono “voi” e ci accusano delle politiche del governo israeliano, mi chiedo cosa c’entri un ebreo italiano o francese con quel che decide Netanyahu, possiamo essere d’accordo o in disaccordo con la politica israeliana ma perché disegnano le svastiche, le stelle di David e deturpano le pietre d’inciampo? È Hamas che ha detto che vuole uccidere gli ebrei in tutto il mondo. Il guaio è che gli ebrei vengono giudicati nel loro insieme, sempre. Le voglio raccontare un episodio rivelatore, mi capitò con il mio amico Calvino».
Cosa successe?
«Un giorno venne qui a casa e mi disse: “Voi dovete andare in America perché il vostro pubblico di lettori è là”. Io gli risposi: “Cosa vuol dire voi? Voi ebrei?”. Io sono sempre cresciuta con questo “voi”. Se c’è un colpevole tutti gli ebrei sono colpevoli, se c’è un ricco, sono tutti ricchi. Gli ebrei vengono giudicati ovunque, nel bene e nel male, insieme».
Dopo questo libro come proseguirà la sua opera sulla memoria? Continuerà ad andare nelle scuole?
«Vado avanti finché ho la salute e la voce, è importante, dà un senso alla mia sopravvivenza. Queste lettere e questi disegni ripagano di tutta la mia fatica e mi confermano che è utile quello che sto facendo». —