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 2024  gennaio 23 Martedì calendario

Gerusalemme in ostaggio

Hamas avrebbe rifiutato la proposta per un cessate il fuoco di due mesi in cambio del rilascio degli ostaggi, secondo una fonte egiziana che, a condizioni di anonimato, ha parlato ieri all’Associated Press.
Poche ore prima, parlando all’agenzia di stampa turca Anadolu, il portavoce di Hamas in Libano Walid Kilani, aveva però detto che Hamas «non ha ricevuto ufficialmente alcuna proposta di tregua da Israele», ricordando che per il gruppo, «la condizione principale per un accordo è un cessate il fuoco totale e completo, non temporaneo» e che, solo a questa condizione, ci sarebbero stati reali colloqui sugli ostaggi.
La proposta, resa nota due giorni fa dal sito statunitense Axios, sarebbe stata presentata con la mediazione del Qatar e dell’Egitto, e prevedeva la sospensione delle attività militari contro Hamas per un massimo di due mesi a fronte del rilascio graduale dei rapiti ancora nella Striscia di Gaza, prima i bambini, le donne, gli anziani e i malati e infine le soldatesse, gli uomini e i corpi degli ostaggi morti a Gaza. L’offerta, secondo il report di Axios, includeva il ritiro delle forze israeliane dai principali centri abitati della Striscia e il ritorno graduale dei palestinesi nel Nord. Da parte di Israele non una cessazione permanente dell’offensiva, né il rilascio di tutti i 6 mila prigionieri palestinesi detenuti, né il ritiro delle truppe da Gaza, che erano le condizioni poste da Hamas.
Questi gli sviluppi delle ultime ore, dopo 107 giorni di guerra, e dopo giorni di intense proteste da parte delle famiglie degli ostaggi che, dai presidi – sia a Tel Aviv che a Gerusalemme – conducono una guerra parallela: fare pressione sul governo affinché trovi una soluzione per riportarli a casa, a qualunque costo.
L’ultimo accordo per la liberazione degli ostaggi risale a quasi due mesi fa, e da allora il movimento che chiede la liberazione dei rapiti e il ripristino dei negoziati è diventato l’istantanea delle spaccature della società israeliana e un’altra spina nel fianco della leadership di Netanyahu.
Lunedì sera i familiari degli ostaggi si sono riuniti a poche centinaia di metri dall’abitazione del primo ministro Netanyahu, hanno chiesto le sue dimissioni e letto i nomi dei 136 rapiti ancora a Gaza, scandendo ogni nome di donna, uomo e bambino seguito dalla frase: riportateli a casa ora. Poi hanno fatto scorrere lungo la discesa di Gaza Street della vernice rossa, simbolo del «fiume di sangue degli ostaggi uccisi», 28, e monito del sangue di chi rischia di non farcela, perché il tempo sta scadendo. «Il sangue degli ostaggi e dei soldati feriti senza uno scopo e una strategia sul dopo è tutto nelle mani del governo e del suo leader» dicono i portavoce del movimento. Se non sono in grado di farlo, lascino posto a qualcuno che lo faccia per loro.
Già domenica sera le famiglie si erano radunate sia di fronte alla residenza del primo ministro a Gerusalemme sia a Cesarea, Tel Aviv. Merav Svirsky, il cui fratello Itay è stato dichiarato morto la settimana scorsa aveva urlato di fronte alle telecamere «se c’è un modo di fare uscire gli ostaggi sopravvissuti fatelo, se l’unico modo è un accordo che abbia un prezzo pagatelo, qualunque esso sia». La mattina dopo un gruppo ristretto di familiari ha fatto irruzione durante una seduta della Commissione Finanze della Knesset, esponendo cartelloni che riportavano la scritta «Non siederai qui, mentre li lasci morire a Gaza». Aviva Siegel, una degli ex ostaggi rilasciati, ha passato la notte in tenda fuori dalla casa del primo ministro, con altri manifestanti e ieri mattina, ascoltata in Parlamento da un gruppo di pressione per il rilascio degli ostaggi ha detto: «Non riesco a farmi una ragione di come i membri del governo non capiscano».
Non riusciva a capire, soprattutto, la loro assenza. Insieme a sua figlia Shar, anche lei rilasciata, ha descritto davanti alla commissione come Hamas abbia reso «gli ostaggi dei burattini con cui fare ciò che volevano, quando volevano», portando vestiti da fate per le ragazze.
«Dov’è il governo? ha chiesto – perché non ascoltano queste storie? Dove sono i decisori? Dove sono per versare una lacrima: di cosa si stanno occupando ora?».
Si dicono stanche di parlare educatamente, e soprattutto di parlare senza essere ascoltate: «Se fossero le vostre figlie, cosa fareste?», ha detto sua figlia Shar. Chen Goldstein Almog, anche lei liberata, ha dichiarato che molte di loro non hanno mestruazioni da tempo ed «è per questo che dovremmo pregare, affinché sia il corpo a proteggerle in modo che non rimangano incinte».
Le altre madri, quelle delle donne ancora in cattività, sono certe che i liberati stiano raccontando solo una parte di quello che hanno visto e vissuto per non turbare i parenti che aspettano il ritorno dei 136 ancora a Gaza.
Anche i movimenti per la liberazione degli ostaggi tratteggiano le spaccature politiche. Se la maggioranza delle famiglie è rappresentata dal Forum sugli ostaggi e sulle famiglie delle persone scomparse, una minoranza si presenta come l’alternativa di destra.
È il Forum Tivka, e i suoi membri sono per lo più sionisti religiosi filo governativi che, a differenza dei primi, sostengono di anteporre lo Stato ai propri parenti. Come riporta il Times of Israel, molti dei membri sono coloni, uno di loro è il presidente del consiglio di Kiryat Arba, Eliyahu Libman, padre dell’ostaggio Elyakim Libman, e e Ditza Or, residente a Shilo, madre di Avinatan Or. Il forum Tivka si oppone alle manifestazioni antigovernative, sostenendo che ogni attacco al gabinetto di guerra danneggia e indebolisce il Paese, anziché aiutarlo.
Il cofondatore del gruppo, Tzvika Mor, è contrario alla liberazione dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane in cambio del rilascio dei rapiti, anche se tra i rapiti c’è suo figlio Eitan, a Gaza da 107 giorni. «Non stiamo parlando del mio dolore personale ma di quello della nazione intera», ha detto nel liceo religioso sionista Tohar a Yad Binyamin, ad Ashdod, alla fine di dicembre. «Lasciare liberi i terroristi mette in pericolo la vita degli ebrei». Ed Eitan non lo vorrebbe.
«Qualsiasi accordo ferisce la nostra dignità nazionale – ha detto Mor al Times of Israel – e ciò dimostra che siamo deboli, che non abbiamo la capacità di perseverare, che non siamo disposti a sacrificarci, e mina la nostra sicurezza. Anche se mio figlio è sulla lista degli ostaggi».
I due gruppi sono uniti dal medesimo desiderio: rivedere i loro cari a casa. Ma divisi nel metodo.
I membri del forum sugli ostaggi di Tel Aviv hanno sì, divisioni interne sulle modalità, ma una parola d’ordine comune: portarli a casa a qualsiasi costo, che sia negoziare con Hamas sui prigionieri, o la cessazione temporanea dei combattimenti. Per il forum Tivka, invece, solo la forza militare potrà liberare i rapiti. Non si oppongono in linea di principio ai negoziati condotti dal Mossad con le autorità qatarine, o egiziane, ma la diplomazia, dicono, non vale niente senza pressione militare, che andrebbe aumentata non ridotta, come andrebbe ridotto l’accesso di cibo, acqua, carburante e medicinali nella Striscia.
Di una cosa sono certi, che non si debba ripetere l’«errore Shalit». Era il 2006 il soldato Gilad Shalit venne scambiato con 1027 prigionieri palestinesi. Tra loro Yahya Sinwar, leader di Hamas a Gaza, che ha trasformato l’organizzazione in una forza militare e governativa e ritenuto la mente dietro il massacro del 7 ottobre, a cui oggi l’Idf dà la caccia a Khan Younis.
Le spaccature tra la minoranza delle famiglie che fanno capo a Tivka e il Forum per la liberazione degli ostaggi, riflettono anche i problemi politici interni di Netanyahu. Da una parte i membri del gabinetto di guerra Benny Gantz e Gadi Eisenkot favorevoli a trovare la strada percorribile per stringere accordi e salvare gli ostaggi, dall’altro il rischio di perdere la maggioranza in Parlamento se i partiti di estrema destra che lo appoggiano, ai quali deve la formazione del governo e che sono radicalmente contrari a ogni negoziato, lo abbandonassero.
La coalizione di governo di Netanyahu è legata ai partiti di estrema destra che vogliono rafforzare l’offensiva, incoraggiare lo sfollamento «volontario» dei palestinesi da Gaza e ristabilire lì gli insediamenti ebraici. Le dichiarazioni di Netanyahu, finora, sono andate in questa direzione, e ha respinto la visione degli Stati Uniti per una soluzione postbellica, l’ingresso dell’Autorità Palestinese a Gaza, affermando che non permetterà mai la nascita di uno Stato palestinese.
Il dilemma sugli ostaggi è il dilemma sul suo futuro politico. Se Netanyahu si mostra disposto ad accettare la possibilità di un cessate il fuoco, o ad accettare che sia l’Autorità Palestinese a supervisionare la Gaza del dopoguerra, rischia di perdere il sostegno dei due controversi esponenti del governo, Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir che chiedono dal primo giorno una campagna definitiva su Gaza. Allo stesso tempo, se non agisce concretamente sulla liberazione degli ostaggi rischia di perdere Gantz ed Eisenkot e l’appoggio del Partito di Unità Nazionale della coalizione.
Al cuore del dilemma, le vite di 136 ostaggi.
Gilad Korngold, che non ha notizie del figlio Tal, è certo di una cosa: «Israele deve sedersi a tavola con gli altri Paesi interessati nella regione. Né mangiare né dormire. Solo trovare una soluzione per portarli a casa». —