Corriere della Sera, 23 gennaio 2024
Fuoco sulla toga riformista
Ci sono stati «giudici ragazzini» in tutte le stagioni. E ce ne sono ancora. All’inizio degli anni Novanta del secolo scorso furono evocati da Francesco Cossiga, che contestava l’invio di magistrati freschi di nomina nei territori di frontiera; troppo inesperti per condurre indagini complesse su mafia e traffici di droga, disse l’allora presidente della Repubblica. Ma vent’anni prima ce n’erano stati altri impegnati in inchieste ugualmente complesse, come le stragi e le trame nere, gli scandali finanziari, il terrorismo rosso. Senza che nessuno avesse da ridire.
Uno si chiamava Emilio Alessandrini, era nato nel 1942 a Penne, sulle colline abruzzesi, aveva studiato a Pescara, e nel 1968 approdò a Milano come pubblico ministero. Nel 1972 non aveva ancora compiuto trent’anni quando si ritrovò sulla scrivania il fascicolo sulla bomba di piazza Fontana, uno dei misteri italiani sul quale si è arrivati a far luce (e non del tutto) dopo decenni di depistaggi, coperture e ostacoli frapposti da altri apparati dello Stato. Che costruirono a tavolino la «pista anarchica» (falsa) per oscurare la «pista nera» (vera), emersa proprio grazie al lavoro di Alessandrini e poi dirottata – con un’altra azione di disturbo – a Catanzaro, mille chilometri più a sud. Ma nel breve periodo in cui gli fu concesso di percorrerla, quel pm ancora fresco di laurea riuscì a svelare la matrice neofascista della strage e relative complicità istituzionali.
«Il giovane Alessandrini diventa protagonista di un’indagine che segna anche un fondamentale momento di svolta nella magistratura italiana. Un ragazzo appena venuto dalla provincia italiana si trova a toccare il nervo scoperto della storia repubblicana», scrive Igino Domanin, saggista e insegnante di liceo che ne è il nipote, figlio di sua sorella Mirella. Il quale a 45 anni dall’omicidio – Alessandrini fu assassinato il 29 gennaio 1979, quando di anni ne aveva 36, dopo aver lasciato a scuola il figlio Marco che ne aveva appena compiuti 8 – ha pubblicato un «romanzo familiare», Un eroe comune (Marsilio), dedicato all’uomo che dopo il delitto e il funerale di Stato alla presenza del presidente Sandro Pertini (predecessore di Cossiga) «non era più “zio Emilio”, ma il magistrato morto da eroe per difendere la democrazia, lo Stato di diritto, la giustizia».
Ne è venuto fuori un racconto che intreccia i ricordi personali di un bambino con la storia professionale di Alessandrini e quella d’Italia nel pieno dei cosiddetti «anni di piombo», di cui fu una delle vittime più emblematiche. Per mano dei fascisti, com’era (per quei tempi) logico che fosse? No, di Prima linea, come titolò all’indomani del delitto il quotidiano dell’ultrasinistra «Lotta continua»; un modo per sottolineare l’assurdità raggiunta dalla spirale del terrorismo rosso e da quella sigla formata in gran parte da militanti provenienti proprio da Lc. Fossero stati gli estremisti neri «tutto sarebbe semplice da capire», scrisse il giornale, mentre l’esecuzione firmata da «compagni» risultava inspiegabile.
Prima linea la rivendicò sostenendo che l’inchiesta su piazza Fontana era stata inutile, perché tanto «i proletari italiani» già sapevano la verità, mentre le più recenti indagini del pm sui gruppi armati di sinistra rappresentavano «il tentativo di ridare credibilità democratica e progressista allo Stato»; dunque Alessandrini rappresentava un pericolo perché restituiva dignità e prestigio alle istituzioni che loro volevano abbattere. Come Guido Galli, il giudice istruttore milanese ucciso l’anno successivo, sempre da Pl.
C’è un filo che lega quelle due vittime in toga, a cominciare dall’impegno nell’Associazione nazionale magistrati di cui furono esponenti di punta nel tribunale dove lavoravano. Galli fu sottoposto persino ad azione disciplinare quando protestò per lo scippo dell’inchiesta su piazza Fontana ad Alessandrini. Oggi sarebbero forse bollati come «toghe rosse», troppo aduse a esprimere opinioni. Come quelle affidate da Alessandrini all’«Avanti!», organo del Partito socialista, tre giorni prima di essere ucciso, e a due giorni dall’omicidio dell’operaio comunista Guido Rossa firmato dalle Brigate rosse. Un altro cortocircuito nella storia del terrorismo che lui spiegava così: «L’obiettivo delle Br è arrivare allo scontro nel più breve tempo possibile, togliendo di mezzo quel cuscinetto riformista che in qualche misura garantisce la sopravvivenza di questo tipo di società».
Il legame
L’autore è figlio della sorella di Alessandrini Per lui, prima del delitto, era solo «lo zio Emilio»
In un covo delle Formazioni comuniste combattenti, poi confluite in Prima linea, era stata trovata una sua foto, che però non bastò ad affidargli qualche forma di protezione.
Nel racconto di Domanin – insieme alle vacanze trascorse sul mare della Sicilia, i giochi e le gite, i pomeriggi al cinema e le esibizioni di basket davanti allo «zio Emilio» che era stato pure un discreto cestista – questi particolari si sovrappongono alle scoperte fatte dopo. Una su tutte: del commando assassino faceva parte il figlio di un ex ministro democristiano, vicesegretario del partito che governava il Paese da trent’anni; un ulteriore groviglio che da un lato confonde, ma dall’altro aiuta a illuminare quel drammatico e travagliato tratto di storia d’Italia.
Al termine delle feste natalizie del 1978 trascorse coi parenti a Pescara, la sorella Mirella salutò Alessandrini chiedendogli se c’era da preoccuparsi per quella foto trovata nella base dei terroristi. «Lui risponde che deve stare tranquilla – ricorda Domanin —, che fa soltanto il suo lavoro, che nessuno per questo può volergli così male. Mancano solo tre settimane alla sua morte violenta, ed è l’ultima volta che lo vedo».
Nelle immagini televisive dell’attentato il bambino riconoscerà la Renault 5 sulla quale fu ucciso, «l’automobile che mi aveva riportato a casa dalla spiaggia diverse volte, nell’estate del 1978, è crivellata su una portiera, i vetri frantumati completamente. Sono gli indizi di un fracasso orrendo e omicida».
I segni della fine di un «giudice ragazzino» falciato dal terrorismo quarantacinque anni fa, protagonista di un tempo cupo ed esempio per quelli di oggi.