Corriere della Sera, 23 gennaio 2024
Biografia di Gavino Sanna raccontata da lui stesso
Gavino Sanna, 84 anni, vive con la moglie Lella in un attico pieno di luce a San Vittore, a Milano. Ha ancora i capelli a caschetto che Berlusconi gli chiese di tagliare. È il creativo degli spot celebri di Barilla, Giovanni Rana, Perugina e ha lavorato per marchi come Coca Cola e Gillette. Ha vinto 7 Oscar della pubblicità. Un giorno si è guardato allo specchio e si è detto che era arrivato il momento di cambiare tutto.
«Ho avuto quattro vite – racconta —, da ragazzo in Sardegna, poi il lavoro a Milano, poi ancora pubblicitario negli Stati Uniti. E ora mi sono inventato vignaiolo, la cantina è in Sardegna e si chiama Mesa».
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Com’era il ragazzo Gavino Sanna?
«Ero cicciotello, uno zio di Torino mi regalò un pallone firmato Carlo Parola. Diventai l’idolo del quartiere, tutti giocavano grazie a me. Stavo in porta, a causa del peso. Ero biricchino. Quasi un somaro. Disegnavo bene, ma venni bocciato. Zio Mario, un pittore, ordinò ai miei genitori di iscrivermi all’istituto d’arte di Sassari. E questo cambiò la mia vita. Mi promossero, unico nella scuola, con il 10 in disegno».
E con il diploma cosa fece?
«Scoprii di avere uno zio famoso per i fumetti e le caricature, disegnava anche per il Corriere dei Piccoli e per la Domenica del Corriere. Si chiamava Giovanni Manca. Decisi di spostarmi nel Continente, e andai a trovarlo, da solo. Riuscii ad arrivare a casa sua, a Bergamo».
Come andò?
«Gli feci vedere i miei lavori, si complimentò, ma fini tutto lì, con molta tristezza tornai in Sardegna, passando per Milano. Mi ricordai che ci lavorava un ex giornalista sardo. Gli spiegai che volevo fare l’insegnante delle scuole medie. Ma no, disse, non ti piacerebbe fare il pubblicitario? Lavorava per una grande agenzia di pubblicità. Tornai in Sardegna, salutai e a Milano venni assunto grazie a quell’ex giornalista allo studio Sigla con uno stipendio straordinario, 45 mila lire al mese».
Come viveva?
«Mi ospitò una zia che aveva sposato un medico condotto anche lui di Sassari e abitava a Ospitaletto, Brescia. Mi svegliavo all’alba per prendere il treno delle 6. Avevo un cappottone, c’era un freddo terribile. Lavoravo in piazzale Biancamano. Era il 1958, avevo 18 anni».
Il primo incarico importante?
«Il lancio dei Baci Perugina. Non stavo nella pelle. Decidemmo di chiamare un grande fotografo e di scegliere set straordinari. Il fotografo era quello di Emmanuelle, un film di genere erotico del 1973. Fece foto di modelle bellissime su spiagge magnifiche. Portammo i bozzetti a Perugia».
Come andò?
«Ci trattarono malissimo. Ci dissero: siete impazziti, cosa sono queste porcherie? Ci cacciarono quasi a calci nel sedere. Dovevamo ricominciare da capo. Un dramma, i soldi del budget erano già spesi. Uno dell’agenzia disse che vicino a casa sua c’era un laghetto carino e che aveva un amico che faceva foto per matrimoni».
E chi avete scelto come modelli?
«In agenzia era arrivata una bella segretaria, prendemmo lei. Non avevamo budget per il modello e dovetti farlo io. Le foto risultarono carine. Tornammo a Perugia. Ci dissero che quel tipo di pubblicità era proprio quello che cercavano: promossi».
E Carosello?
«L’agenzia aveva ingaggiato Frank Sinatra. Si girava a Roma. Lui arrivò e si mise seduto su uno sgabello. Iniziò a cantare una dopo l’altra le dieci canzoni del contratto e si diresse verso la porta dello studio».
Senza dire nulla?
«Cercammo di fermarlo, bisognava fargli recitare lo slogan dei Baci Perugina: ci urlò di andare a farci fottere e se ne andò».
Un disastro.
«L’operatore ci salvò. Aveva registrato tutta la scena, parolacce comprese. Così doppiammo Sinatra in italiano facendogli dire: “Ovunque c’è amore c’è un Bacio Perugina”. Un trionfo».
È sempre rimasto in quella agenzia?
«Lessi che un’altra agenzia pagava meglio. Mi assunsero, ma fu un disastro personale, facevo poco o nulla. Dissi al direttore: me ne vado, voi forse pensate che io sia imbecille, ma io penso lo stesso di voi. Mi presero alla McCann Erickson, una delle agenzie più importanti del mondo. I clienti erano americani, ma io non parlavo l’inglese. Decisi di fare il salto più importante della mia vita e mi trasferii negli Stati Uniti per studiare».
Dove?
«Alla New York University. Scoprii che nello stesso edificio insegnava il più famoso artista del momento, Andy Warhol. Mi iscrissi subito alle sue lezioni. Mi piaceva tantissimo, di pubblicità non insegnava nulla. Era veramente furbo: faceva degli schizzi e poi aveva un gruppo di ragazzi, un responsabile del giallo, uno del rosso e così nascevano i suoi famosi ritratti. Frequentavo la sua factory, c’era la New York più diversa e imbarazzante».
Vi parlavate?
«Una volta mi ha chiamato per andare a fare shopping insieme. Voleva comprare alcune calze. Andammo in un supermercato. Fece impazzire la sua segretaria, perché sapeva tutto su marche e modelli delle calze».
A casa di Warhol c’era lo stesso clima?
«C’era un rito, la scelta della parrucca prima di uscire. Ne aveva una collezione, la sua preferita era la rosa».
Dopo il diploma è tornato in Italia?
«Sono tornato con un bagaglio di conoscenze enormi. Avevo conosciuto anche molte ragazze. Compresa una hostess della Pan American. La sposai. Dopo sei anni uscendo da un cinema mi disse che voleva divorziare. Rimasi come un fesso. Ma l’ho presa come una esperienza: con lei avevo girato il mondo e il mio profilo creativo si era sicuramente arricchito».
Cosa è successo in Italia?
«Una famosa agenzia americana, Benton and Bowles, cercava creativi per aprire in Italia. Chiesi luna e stelle e mi dissero di sì. Applicai tutto quello che avevo imparato in America. Avevano come clienti un prodotto per lucidare mobili, un venditore di tappeti e uno di penne a sfera».
Poco.
«Nulla. Ma riuscimmo a vincere la gara per la pubblicità della Fiat. Poi passai alla agenzia più importante in quel momento, Young & Rubicam. Dissi che volevo essere il pubblicitario più pagato in Italia. Risposero ok, diventai il direttore creativo».
E quali campagne fece?
«Vinsi la gara per Barilla. Creai la campagna con il filmato di un signore che tornava a casa dopo un viaggio in auto e mordeva il pacchetto della pasta».
Quella dello slogan “Dove c’è Barilla c’è casa”.
«L’ho scritto io. Da quel momento è cambiato il modo di fare pubblicità in Italia».
E altre campagne?
«Ho creato il personaggio Giovanni Rana e i filmati di lui assieme a Marilyn Monroe, Fernandel… Successo clamoroso».
Perché ha smesso di fare pubblicità?
«Perché non ci sono più clienti che vogliono pubblicità che parlino alle famiglie».
Come nasce l’ultima vita da vignaiolo?
«Alcuni amici, sapendo che ero senza lavoro, mi chiesero di aprire una cantina con loro. Risposi che non mi interessava vendere vino ma creare una sorte di Tiffany del vino in Sardegna. Ho creato il progetto per raccontare colori e profumi della terra».
Che significa Mesa?
«Mi sono ispirato alla scritta su una porta di cristallo di un ristorante a New York».
Ma lei il vino non lo beveva.
«Sono cresciuto in una famiglia che non beveva. Anche adesso faccio finta di berlo. Lascio la parola a enologo e cantiniere. Mi appassiona il mondo del vino, è un modo per raccontare la Sardegna».
Come ha scelto i vini da produrre?
«Un giorno trovai in aeroporto Giacomo Tachis, l’enologo del Sassicaia e del Turriga, Mi disse che il vino sardo migliore non è il Cannonau, è il Carignano. È quello che facciamo noi».
Perché ha venduto metà azienda al gruppo Santa Margherita della famiglia Marzotto?
«Ci serviva qualcuno che ci accompagnasse in America».