Corriere della Sera, 23 gennaio 2024
Intervista a Sabino Cassese
Professor Cassese, in un libro-intervista con Alessandra Sardoni, lei ha delineato le strutture del potere. Chi è stato il primo potente che ha incontrato?
«Enrico Mattei, conosciuto quando nel 1957, un anno dopo la laurea, andai a lavorare all’Eni».
Che ricordi ha della notte in cui morì Mattei?
«Fui tra i primissimi a sapere del disastro aereo. Mi avvisò quasi in tempo reale Stelio Valentini, un ragazzo di cui seguivo la tesi di laurea, che era figlio del capo di gabinetto del presidente del Consiglio Amintore Fanfani. Seppi tutto quasi in presa diretta: l’aereo di Mattei scomparso dai radar, poi dato per disperso, fino alla notizia della morte. Andai anche io all’Hotel Eden, vicino via Veneto, dove Mattei abitava quando stava a Roma; e ricordo come venne organizzato il convoglio speciale per portare a Milano i rappresentanti del governo e dell’azienda».
Come cambiava l’Italia con la morte di Mattei?
«Noi dell’Eni, come scrisse Marcello Colitti, perdevamo un padre. L’Italia perdeva l’uomo del futuro. Consideri che a mio avviso, pur essendo passati quasi diciotto anni dal 25 aprile, c’erano ancora dei fortissimi elementi di continuità col Ventennio».
Per esempio?
«Le racconto un episodio personale. Quando mi chiamarono all’Eni, un carabiniere si presentò nel mio palazzo a prendere informazioni su di me e chiese con discrezione al portiere dello stabile di che orientamento politico fossi. Nel rapporto finale c’era scritto che ero un uomo di sinistra, che pencolavo verso le idee del Partito comunista, ma che comunque ero “uno studioso, un bravo ragazzo”. Quindi, non una testa calda».
Secondo lei, Mattei fu ucciso?
«Non ho mai avuto elementi per dare una risposta certa a questa domanda. Le tesi dell’omicidio sono le stesse da sempre: che lo volessero morto gli americani, visto che aveva cambiato i rapporti tra i Paesi produttori di petrolio; che lo volesse morto un pezzo di Democrazia cristiana, visto che lui foraggiava la sinistra del partito; che lo volesse morto la mafia. A quest’ultima tesi è legata anche la scomparsa di Mauro de Mauro, il fratello del mio grande amico, e poi cognato, Tullio».
Il fascismo, in Italia, è un capitolo che può riaprirsi?
«No. È un capitolo chiuso».
Secondo molti, nel pezzo di Paese limitrofo alle idee di Fratelli d’Italia...
«Come le dicevo prima, il fascismo per certi aspetti è proseguito anche oltre la morte di Mussolini: la polizia politica ha proseguito il suo lavoro, la censura cinematografica è arrivata fino agli anni Sessanta, l’Iri è rimasto in vita fino all’ultimo decennio del secolo... Poi però la riforma agraria, la messa in funzione della Corte costituzionale, la nazionalizzazione elettrica, la riforma della scuola, la “pensione sociale”, lo Statuto dei lavoratori, l’arrivo del Servizio sanitario nazionale, ecco, tutto questo ha abbattuto quello che era rimasto del fascismo».
È vero che è stato vicinissimo dal diventare presidente della Repubblica?
«È vero che si è fatto e scritto il mio nome nel 2015 e nel 2022, che è diverso».
Come si vive nel condominio del totonomi?
«Credo che tutti quelli di cui si fanno i nomi nel momento in cui c’è da fare un governo o il nuovo presidente della Repubblica la vivano con distacco, anche perché quel mestiere è difficile e non sempre gradevole. Come se la circostanza di essere nominati ministri o eletti al Quirinale stia nel mondo delle cose possibili ma non di quelle probabili».
Nel governo Ciampi, 1993, la sua nomina a ministro fu possibile, probabile, infine reale.
«Ciampi mi telefonò per dirmi “penso a lei”, all’epoca ci davamo del lei, “come ministro della Funzione pubblica”. Ovviamente, aggiunse, “non glielo posso garantire finché non lo annuncio”».
Si era in piena Mani Pulite.
«Le racconto questa cosa: viste la dimensione delle malversazioni che emergevano via via dalle carte delle inchieste dei giudici milanesi, decidemmo di scorporare il costo della corruzione dal bilancio dello Stato e quindi di toglierlo dalla legge finanziaria. Serviva un lavoro preciso, fatto bene, che tra l’altro aveva iniziato anche l’ufficio studi della Banca d’Italia. D’accordo con Ciampi, presi contatto col pool di Milano e il dottor Davigo viene in gran segreto a Roma a lavorare sulle cifre con me. A Roma nessuno, a parte noi due e il presidente del Consiglio, sapeva di questi incontri. Anzi, solo un quarto, che mantenne il segreto».
Chi era?
«Cesare Geronzi, che ci mise a disposizione un ufficio della Banca di Roma in via del Corso. Io e Davigo lavorammo per un intero giorno, entrando separatamente in quel palazzo da due ingressi riservati. La finanziaria del 1993 la scrissi dopo quegli incontri».
A gennaio del 2022, in piena elezione del capo dello Stato, l’uomo che dava le carte, Matteo Salvini, venne a casa sua e mangiaste insieme un passato di verdure.
«Salvini venne per fare una verifica, per farmi un esame. Ma l’idea che io potessi andare al Quirinale era stata di Matteo Renzi. Infatti, la prima a interpellarmi in tal senso, prima dell’inizio delle votazioni, era stata Maria Elena Boschi».
Quando ci sono incontri di questo tipo, che cosa viene chiesto esplicitamente?
«La domanda è: “Sarebbe disponibile o indisponibile per...?”. Ma molte persone sono “sondate”, come è giusto».
Lei di solito che cosa risponde?
«Uso una frase che mi aveva detto Guy Braibant, il più rispettato membro del Consiglio di Stato francese, un super mandarino che era stato capo di gabinetto di Fiterman quando i comunisti francesi erano nella coalizione di governo: le cariche pubbliche non si sollecitano e non si rifiutano».
Credette alla possibilità di diventare presidente della Repubblica?
«Nel 2015 scrissi un fondo per il Corriere in cui elencavo le caratteristiche per cui di solito si viene eletti al Colle. Sostanzialmente, bisogna essere stati presidenti di Camera o Senato, presidenti o vicepresidenti del Consiglio. Il motivo è semplicissimo: il Parlamento vota uno che conosce. Può immaginare quindi quale conclusione ne traessi a titolo personale».
Chi è stato il potente che ha meno fatto pesare il suo potere, di quelli che ha incontrato?
«Ciampi. Si metteva sempre un gradino sotto i suoi interlocutori, in una stanza non lo notavi neanche, poi finiva per prendere il meglio da tutti quelli che stavano accanto a lui. Era la coralità del potere. E poi, scusi, chi mai avrebbe potuto ambire a diventare capo del Servizio studi di Bankitalia, voluto da Menichella e Carli, partendo da una laurea in filologia e sbaragliando la concorrenza degli economisti?».
Craxi com’era?
«L’esatto contrario. Con Craxi in una stanza si vedeva solo Craxi, era o voleva essere il centro di tutti. Lo stesso può dirsi per Spadolini, in cui c’era anche quell’elemento di vanità tipico degli uomini di cultura».
Il potente più simpatico che ha conosciuto?
«Ciriaco De Mita, il potente che più di altri ha conservato e coltivato quell’elemento dubitativo e raziocinativo che è proprio dell’intellettuale».
Perché, gli intellettuali sono simpatici?
«Sì, perché amano discutere col prossimo, ragionare... Lo vuol sapere un altro elemento vero del potere?».
Certo.
«Il potere, quello vero, non viene mai disturbato, non è alle prese con telefoni che squillano. Mai. Uno a cui squilla di continuo il telefono non è un potente. Quando ero ministro, nel 1993, passai una giornata intera con Denoix de Saint-Marc, segretario generale dell’Hotel Matignon, la sede del Primo ministro francese. Non l’hanno mai chiamato, eppure era l’uomo più potente della Francia. Anche con De Mita presidente del Consiglio, all’epoca in cui facevo parte della commissione per il programma di governo, era così. Ci vedevamo a Palazzo Chigi, nel suo studio; iniziavano delle lunghissime chiacchierate che partivano da metà mattinata e finivano puntualmente all’una e mezza. Poi De Mita diceva “be’, abbiamo fatto tardi”, prendeva il giornale, lo piegava in due, lo metteva sottobraccio e se ne andava a mangiare. Il tutto senza che il telefono avesse mai squillato.