Corriere della Sera, 24 gennaio 2024
La libertà non è devastare
Gli autovelox non piacciono a nessuno e inquietano tutti. Ma è un po’ inquietante pure l’Italia che trasforma un vandalo in un eroe, inneggiando a un delinquente che distrugge beni pubblici e crea problemi a poliziotti, carabinieri, sindaci, insomma persone che lavorano per la comunità.
Certo, far lievitare una multa da cento euro magari non notificata in una cartella esattoriale da duemila è un sopruso. Interveniamo su quello (in parte lo si è già fatto, sia pure all’italiana: penalizzando gli onesti e gli ingenui che hanno pagato, e premiando chi non l’ha fatto). Ma l’autovelox, per antipatico che sia, serve alla sicurezza stradale. Non la garantisce. Però rappresenta un freno per automobilisti che altrimenti si sentirebbero autorizzati a sfrecciare a tutta velocità in un piccolo centro.
Sulle strade italiane si perpetua da anni una strage, ripresa dopo la pandemia pressoché ai ritmi di prima (3.159 morti nel 2022; nel 2019 erano stati 3.173, cui vanno aggiunti quasi 250 mila feriti). Se i numeri delle vittime sono più o meno gli stessi, la sensazione di insicurezza è cresciuta. Dai Suv alle Smart, sino ai monopattini sul marciapiede o contromano, abbiamo l’impressione che valga tutto; e se può capitare a molti di sbagliare, pochi sanno riconoscerlo e chiedere scusa. Certo l’autovelox da solo non risolve la questione; però potrebbe aiutare, ad esempio a Roma, la capitale europea dove si muore di più per strada.
M a il caso «Fleximan» – il vandalo lo chiamano così, come un supereroe – non riguarda solo la sicurezza stradale. È spia di un Paese che non soltanto com’è noto non ha il senso dello Stato, ma non ha neppure il senso della libertà.
Lo Stato è considerato altro da noi. Nemico. Il Palazzo di Giustizia è il Palazzaccio, il poliziotto è lo sbirro, l’agente delle tasse l’esattore tipo sceriffo di Nottingham (il distruttore di autovelox è il Robin Hood de noantri). Dominati per secoli dagli stranieri (con rare eccezioni: i veneziani e i torinesi avevano il loro Stato, ma le loro identità sono oggi le più spappolate d’Italia), noi italiani ci siamo abituati a pensare l’autorità come necessariamente autoritaria, il governante come un despota irresponsabile. Ecco la parola-chiave: irresponsabilità.
La libertà non è, o non dovrebbe essere, fare quello che ci pare. Non si pretende che tutti pratichino la santità di Giovanni Paolo II, secondo cui la libertà è voler fare quel che si deve fare. Stabilire quel che si deve fare è complicato. Basterebbe rendersi conto che la libertà finisce quando lede un diritto altrui o un interesse pubblico. Libertà è un fisco meno esoso, un’amministrazione più snella, poche e semplici regole anziché macchine burocratiche che alimentano se stesse. Non è segare un autovelox.
Intendiamoci: nei grandi liberali c’è sempre stata una vena goliardica, satirica, libertaria, rivolta non contro lo Stato ma contro lo statalismo. C’era in Cavour. C’era in Churchill, ad esempio quando definiva la democrazia «la peggior forma di governo, tranne tutte le altre». Scendendo nella nostra mediocre quotidianità, c’è in Boris Johnson, che sarà un mattoide e ha senz’altro sbagliato la gestione del Covid, però ha vinto prima il referendum sulla Brexit, poi – a valanga – le elezioni. L’insofferenza verso gli eccessi burocratici ci sta. Ma il dileggio del bene comune e della responsabilità non è liberalismo e neppure anarchia; è disprezzo per gli altri, che alla fine è sempre disprezzo per se stessi.