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 2024  gennaio 24 Mercoledì calendario

Emilio Isgro si racconta

Il grande maestro si racconta, dalle origini siciliane alla Milano degli anni Sessanta E poi la scelta di quei tratti neri sui testi scritti, come i Codici che vanno in mostra a Bologna. In febbraio, per Art City a Bologna, verranno esposte le pagine diventate preziose, del codice civile e del codice penale italiani, a Palazzo Malvezzi, la più antica facoltà di Giurisprudenza al mondo. Ciò che le rende opere d’arte è l’essere passate dalle rovinose mani di Emilio Isgrò, che ormai dal 1967, e sempre senza stancarsi mai, se gli balena qualcosa che potrebbe essere scrittura, subito gli viene la feroce follia di cancellarla con il luttuoso e spietato tratto nero, per poi riprender vita pagine e pagine dopo, risultando così, dai codici crudeli, frasi alquanto curiose tipo, «la falsa dichiarazione della propria identità dichiara o attesta altre qualità». Se li leggi, quei codici presentati per la prima volta in 29 grandi pagine giuridiche (tecnica mista su tela stampata su libro e legno, 35 x 50, 5 x5 cm.) ti confondono e ti fan girare la testa, perché, dice Isgrò «senza parola non c’è diritto e senza diritto non c’è democrazia. Il primo impegno dell’arte è quello di discutere in un mondo che urla». Giusto perbacco. A furia di cancellare, cancellando senza stancarsi da 57 anni e diventando così il Signore dei Supercancellatori, quell’Arte Cancellata è diventata un’arte vera, o per lo meno il suo modo di fare arte.
Lo chiamano infatti Maestro, come fece per la prima volta il suo scopritore, il grande grandissimo Arturo Schwarz che voleva regalare tutta la sua meravigliosa raccolta Dada a Milano, ma Borghini (sindaco di Milano) e Pillitteri, pure lui sindaco poco preparato, la rifiutarono: disgustati, il Dada! Oggi Isgrò si è ritrovato in un mondo del tutto ultracancellabile, anche fin troppo. Oltre le parole, si vorrebbe cancellare, espellere, depennare, togliere, cassare, eliminare, tutto o quasi tutto quel che ci sta crollando addosso. A vent’anni, nel 1956, sicilianamente bello, anzi dicono ancora di più, arriva a Milano ma senza la valigia di cartone legata con la corda che faceva fuggire i milanesi certi di essere dei gran signori verso quel mondo nuovo che gli si piantava davanti: i famosi immigrati, venuti dalla terra ignota dell’Ignoto Sud italiano. Appena sceso dal treno, c’è chi gli chiede, ma cosa è venuto a fare a Milano? E lui pronto, «il poeta».
Lei arrivava con un po’ di soldi tra noi scemi milanesi da un posto ignoto non lontano dal mare Tirreno, in provincia di Messina, chiamato misteriosamente Barcellona Pozzo di Gotto, che pareva, allora, immune dalla mafia.
«Dalle finestre della mia camerada letto si vedevano le Eolie, ed era molto bello. Mio padre era ebanista, mia madre comunista, io sono stato il primo figlio, poi gli altri tre, e io ero il più amato, il più viziato, tutti dovevano ubbidirmi. Ho fatto laggiù il liceo classico e allora era in provincia che si trovavano le belle teste. Poi mio padre se ne andò a Losanna a suonare il clarinetto e il sassofono tra le giraffe e i leoni del Knie, il circo nazionale svizzero, tornando molti anni dopo in Sicilia e lì morì a cento anni».
A Milano fu subito un immigrato fortunato.

«Da casa avevo mandato a Raffaele Crovi qualche manoscritto. Lì conobbi Elio Vittorini che mi invitò subito ai suoi pranzi domenicali esclusivi. Poi, si sa, mi ritrovai con centinaia di amici. Un giorno incontrai Schwarz e avevo con me un mio libro già cancellato: lui lo volle assolutamente e, dopo una trattativa dura, ne ricavai una buona cifra. Ma intanto avevo conosciuto tutti, da Enzo Biagi che riteneva il culatello il valore più alto della vita, a Ottiero Ottieri, sua moglie Silvana Mauri e il loro clan. Secondo Ottieri, io ero un gran tombeur de femmes, peccato che ad ogni conquista dovevo inventarmi un no credibile perché mi mancavano i soldi per arrivare nella casa dell’amata. Poi era ormai il 1960, e fu il direttore del Gazzettino, Giuseppe Longo, che veniva da Messina, a chiamarmi a Venezia. Di punto in bianco capo della terza pagina: un giornalista!».
Dunque è a Venezia che nasce Il Gran Cancellatore?

«A Venezia ci andai a 23 anni e mi pareva di conoscere il mondo intelligente, pieno di voglia di fare, pur venendo da un mondo sconosciuto, lontano, Barcellona Pozzo di Gotto che nessuno conosceva al Nord: il direttore mi affidò le pagine culturali del Gazzettino e io ci andai con la mia nuova moglie Brigitte, tedesca, conosciuta una sera in casa di amici, e con cui sono finito insieme la stessa sera: oggi è diventata molto amica della seconda».
Si amano?
«Si adorano, e neanche un figlio perché nessuna delle due ne ha voluti».
Scilla Velati era giornalista di moda e molto carina, un tipo esotico con la frangetta. Adesso sta per compiere 80 anni, le sue coetanee (forse ce ne sono in giro troppe per i troppo giovani), la guardano un po’ nervose: figura perfettissima e neppure un grammo che turbi la bella silhouette, la sua faccia di sempre appena truccata, forse nessun intervento villano che alla sua età deforma quel che forse era bello. Isgrò, con cui condivide l’istituto milanese Emilio e Scilla Isgrò con le più famose Cancellazioni, non si sa se per il nervoso o per amore, quasi non parlerebbe d’altro che di lei. Fu in quell’anno, alla Biennale 1964, che al consolato degli Usa esposero le meraviglie della Pop Art, e il primo premio lo vinse infatti l’americano Rauschenberg, con un tripudio di feroci villanate che accusavano l’America di sostenere la morte dell’arte. «E fu lì che ebbi il coraggio di darmi alla Cancellazione. I colleghi mi guardavano sospettosi perché cancellavo ciò che loro scrivevano. Ma nel 1967 lasciai Venezia e il Gazzettino: basta viaggio nella Polonia di Gomulka, basta John Kennedy poco prima che venisse ammazzato, basta cinema alla Biennale, basta Gina Lollobrigida e Anna Magnani. Basta giornalista, cominciavo ad essere un artista».
Ma prima che cominciasse a farlo sul serio, quanto si è divertito il Maestro! Gli anni di Gibellina con il testo di Gibella del Martirio sulle rovine del terremoto, poi alla Biennale di Venezia la sua gelida Biografia di uno scarafaggio e poi finalmente l’apoteosi, come nei film degli anni ’30: nel 1984 il matrimonio con la bella Scilla, che essendo, dice lui, un timido, dovette molto infastidirlo prima di convincerlo. Il tempo è passato con una velocità eccessiva e adesso lui sta scrivendo il suo grande romanzo: una volta finito, penserà se buttarlo o no; nel palazzo del Quirinale nel 2020, fa a tempo a cancellare si spera per sempre “i provvedimenti per la difesa della razza italiana” ripresi dalla Gazzetta Ufficiale del 1938.