il Fatto Quotidiano, 24 gennaio 2024
L’ex ministro Fioramonti è un cervello in fuga
“Per insegnare all’università sono andato a vivere prima in Sudafrica e oggi a Londra. Mi sono anche proposto alle università italiane gratis, ma ho trovato solo porte chiuse. Purtroppo c’è ancora la cultura del favore”. Sembra uno dei tanti racconti di italiani costretti a vivere all’estero per lavorare, questa storia però di particolare ha il protagonista. È l’ex ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Lorenzo Fioramonti. Dopo la laurea a Roma, a 35 anni anni diventa docente all’Università di Pretoria in Sudafrica ma torna in Italia nel 2018 quando con il M5S diventa deputato. Meno di un anno dopo viene nominato ministro con il secondo governo Conte. Un’esperienza durata però poco più di tre mesi, con le sue dimissioni in polemica per le scarse risorse inserite in manovra per scuola e università. Così, finita la legislatura si trasferisce in Inghilterra dove è professore ordinario di Sostenibilità all’Università del Surrey, fondando e dirigendo un centro di ricerca. “Un centro con oltre 200 ricercatori, che avrei voluto realizzare in Italia ma purtroppo non ci sono riuscito”, spiega Fioramonti raccontando quello che definisce un “paradosso dei paradossi”.
Ma ha mai proposto il progetto in Italia?
Da ex ministro ci sono andato con tutte le cautele possibili. Alla fine del mio mandato parlamentare dissi a una decina di università che mi sarebbe piaciuto costituire un centro di ricerca in Italia sulla sostenibilità, avrei trovato io i finanziamenti, non chiedevo un euro. E la risposta è sempre stata “Vediamo”, “Ti faremo sapere”. Una cosa a metà tra l’imbarazzo e la cortesia.
E poi?
Non riuscendo a convincere nessuna università italiana ho accettato la proposta che mi arrivava dall’Inghilterra.
Non crede possa avere influito l’essere un ex ministro?
Un terzo dei dipendenti della mia università sono italiani, quindi ahimè non è solo un problema mio, ma purtroppo di tanti italiani.
Magari era un progetto troppo dispendioso…
Ho anche proposto di venire a costituire il centro di ricerca gratis. Avrei continuato part-time a lavorare in Inghilterra e sarei venuto in Italia per mettere in piedi un Tecnopolo a titolo gratuito e trovando io i fondi. Ma anche in quel caso, zero.
Quindi porte chiuse anche gratis?
Il problema è una cultura accademica ancora medievale in cui ci si scambiano i favori. Nonostante io sia stato ministro, ho sempre sostenuto le università non perché avevano rettori amici, ma perché avevano ricercatori che facevano un buon lavoro. Questo significa però che non sono membro di nessuna combriccola e nessuno ha interesse a sostenere qualcuno come me o qualcuno che non si muove in questo modo.
Parla dell’università dei baroni?
In Italia ancora si entra per segnalazione. Ma non parliamo di un’università di ricchi baroni, in tanti guadagnano molto meno dei colleghi all’estero. Forse alcuni non lo fanno volontariamente, semplicemente sono stati abituati così e quindi continuano a replicare questo metodo. Troppi utilizzano l’università come emanazione di un potere personale: pensano che è meglio dare un posto a chi sarà loro riconoscente. E questo non è utile. Poi ci metta pure che i finanziamenti sono sempre di meno e che la torta si restringe…
Quello dei fondi è il tema che l’ha portata alle dimissioni. Oggi è cambiato qualcosa?
Nulla. Siamo ancora lì a elemosinare fondi per quella che è potenzialmente la più grande industria del Paese. Gli inglesi fanno miliardi con l’industria della conoscenza. Potevamo sfruttare la Brexit con i tanti studenti stranieri che guardavano con interesse le alternative europee, ma abbiamo perso anche questa opportunità.
E all’estero vanno anche i nostri studenti.
Ecco un altro paradosso. A me fa molta tristezza vedere italiani venire a studiare qui. I loro genitori spendono soldi in Inghilterra e per essere istruiti da un professore italiano che avrebbero potuto incontrare in Italia. Invece stiamo arricchendo l’Inghilterra.
E in Italia cosa resta?
Da membro del governo ho proposto di creare a Taranto un grande centro di ricerca, il Tecnopolo per lo sviluppo sostenibile. È stato finanziato nella legge di Bilancio 2018 con 9 milioni. Poi paradossalmente sia la politica sia l’università boicottarono il progetto. I finanziamenti sono stati congelati e adesso cancellati dal governo Meloni. Altra occasione persa.
Quindi che fare?
Serve un modello di università diversa. I rettori non devo essere eletti, ma nominati sulla base delle competenze e licenziati se non fanno il loro lavoro. L’università non può essere in mano alle cordate e alla politica. Non si fa la scienza con i voti.