Corriere della Sera, 23 gennaio 2024
L’ossessione di Mao Zedong
La storia dell’uomo che il 1°ottobre 1949 fondò e successivamente fu a capo della Repubblica popolare cinese è ricostruita sulla base di una documentazione ricchissima e completa da Guido Samarani in Mao Zedong. Il Grande Timoniere che guidò la Cina dalla rivoluzione al socialismo, pubblicato da Salerno editrice. Il quadro complessivo è più che soddisfacente. Anche se, precisa Samarani, è giusto far presente che, al completamento di questo quadro, mancano ancora non pochi tasselli dal momento che gli Archivi centrali del Partito comunista cinese sono ancora chiusi. Ma per tutto il resto il ritratto che esce da questo volume è ricco di nuovi dettagli e considerazioni inedite.
La parte più interessante è quella dedicata alle relazioni sino sovietiche nel primo decennio di vita della Repubblica. Dieci settimane dopo la presa del potere, Mao si recò a Mosca (16 dicembre 1949), dove, accompagnato da una ventina di dirigenti del partito, si trattenne due mesi. Liu Shaoqi e Zhou Enlai (all’epoca i numeri due e tre della gerarchia comunista) avevano già posto le basi per il «Trattato di amicizia, alleanza e mutua assistenza» che fu poi firmato tra i due Paesi (14 febbraio 1950). Mao però dovette accorgersi immediatamente che Stalin aveva nei suoi confronti un che di scostante. Anche se nessuna traccia di questa sensazione emerge dai quattro documenti ufficiali che fanno riferimento a quel prolungato incontro: l’allocuzione tenuta da Mao al suo arrivo a Mosca; un’intervista rilasciata dal leader cinese all’agenzia sovietica Tass (2 gennaio 1950); un discorso tenuto da Mao all’atto della partenza dalla capitale russa; l’ampio articolo che lo stesso Mao pubblicò sul «Quotidiano del popolo» (il 9 marzo 1953) subito dopo la morte di Stalin. In quel periodo, tra il 1950 e il 1953, c’era stata anche la guerra di Corea e più volte – secondo Maurice Meisner in Mao e la rivoluzione cinese (Einaudi) – Mao aveva dovuto prender atto del fatto che Stalin non si sentiva, per così dire, in alcuna soggezione nei suoi confronti.
Stalin – conferma Marie-Claire Bergère in La Repubblica popolare cinese (1949-1999) (il Mulino) – aveva dato manifestazioni di diffidenza nei confronti dei comunisti cinesi talché era stato necessario attendere la sua scomparsa perché «sbocciasse» un’autentica alleanza cino-sovietica. Un’alleanza che, però, ebbe breve durata. La stranezza sarà che proprio l’onda di destalinizzazione, provocata da Krusciov al XX congresso del Pcus (febbraio 1956), comporterà il «naufragio» di questa intesa. Samarani ha il merito di fare chiarezza fin dove è possibile di questa paradossale evoluzione dei rapporti tra Mosca e Pechino.
Perché, si domandava Bergère, i dirigenti cinesi accolgono con tante riserve la destalinizzazione, nel 1956-1957, per poi prendere apertamente, nel 1963, le distanze dalla «sconfessione di un uomo al quale non hanno mai ispirato fiducia» e che, ai loro occhi, aveva «la responsabilità di un certo numero di errori e di fallimenti cruenti nella condotta del movimento rivoluzionario cinese»? Fondamentalmente, ribadisce Samarani, il leader cinese era consapevole del fatto che «un giudizio troppo negativo su Stalin avrebbe inevitabilmente avuto riflessi sul suo ruolo in quanto leader del partito e dello Stato». D’altra parte, ciò che stava avvenendo – e qui ci si riferisce ai terremoti dell’estate e dell’autunno di quello stesso 1956 in Polonia e Ungheria – richiedeva «una indispensabile riflessione sul rapporto tra potere e società». In tutti i Paesi comunisti, ma anche in Cina. Soprattutto in Cina.
Fu in questo periodo che si manifestò una «tendenza» di Mao che «divenne sempre più marcata, anche se non in modo continuo e costante». Quale? Quella che si concretizzò in un’attenta e «quasi ossessiva» osservazione e analisi delle tendenze politico-ideologiche che sempre più erano inclini a distaccarsi dalla sua visione dei tempi. In particolare, su come dovesse procedere la sua «rivoluzione». Mao prese a classificare sempre più spesso le «tendenze» di cui si è detto come «deviazioni» dalla linea del partito. E, di conseguenza, come una messa in discussione «di fatto» della sua autorità in quanto «unico vero interprete della voce del partito e del popolo». In tal senso, le «campagne di rettifica» che si succedevano periodicamente, secondo Samarani, vanno sostanzialmente lette come strumenti finalizzati a «correggere» gli «errori» di chiunque non si adeguasse al suo pensiero. Accompagnando il tutto, «ove necessario e utile», con un sostegno «esterno» al partito stesso. Vale a dire facendo ricorso all’«impegno delle masse» laddove «le resistenze politico-burocratiche interne» lo richiedevano.
Qualcosa si era già intravisto nel corso della metà iniziale degli anni Cinquanta, allorché Mao diede vita a polemiche apparentemente culturali. Per prime vennero le critiche al film La vita di Wu Xun (1951). Seguirono quelle alle tesi del filosofo Liang Shuming (1953). Altra occasione di intervento per Mao fu il dibattito su Il sogno della camera rossa, un romanzo del XVIII secolo che raccontava di una famiglia ricca e aristocratica, i cui amori vennero riproposti nel 1954 come manifestazioni ante litteram della lotta di classe.
Ma fu contro il grande teorico Hu Feng che Mao, nel 1955, scatenò una vera e propria campagna di delegittimazione. Hu Feng aveva avuto la colpa, agli occhi del partito, di intrattenersi sulla «natura soggettiva dell’opera letteraria», pur senza mai rendere espliciti i sottintesi libertari contenuti nei suoi saggi. I lettori, però, potevano facilmente individuarli, questi sottintesi, e ciò diede origine alla pubblicazione di una collazione di testi, sotto il titolo Materiali sul gruppo controrivoluzionario di Hu Feng, a cui Mao in persona decise di scrivere la prefazione. Facendola poi pubblicare sul «Quotidiano del popolo». Gli elementi del gruppo di Hu Feng, scriveva Mao, «sono controrivoluzionari che si manifestano con false sembianze, presentano un’immagine contraffatta di sé stessi, nascondendo quella vera». E, «dal momento che vogliono opporsi alla rivoluzione», quest’immagine contraffatta «non possono nasconderla completamente». Ragion per cui si raccomandava ai quadri, agli intellettuali, alle masse di far propri i suddetti «materiali» come «strumento per elevare il loro livello di coscienza politica». Inoltre, siccome Hu Feng aveva criticato ogni sorta di «uniformità dell’opinione pubblica», doveva adesso prendere atto della circostanza per cui «ai controrivoluzionari non è consentito pubblicare le loro opinioni controrivoluzionarie». In qualche modo Mao dava ragione a Hu Feng: «Il nostro regime non consente a nessun controrivoluzionario di avere libertà di parola, permette questa libertà solo all’interno del popolo». Dopodiché Hu Feng fu arrestato e processato a più riprese per ricevere condanne sempre più severe. Fino a quella dell’ergastolo nel 1970, sei anni prima della morte di Mao. Ma il suo nome era a tal punto vituperato che Hu fu lasciato in carcere per altri tre anni dopo la scomparsa del Grande Timoniere. Uscì nel 1979, giusto in tempo per morire da uomo libero nel 1985 Ma dovettero trascorrere altri tre anni prima che nel 1988, venissero annullate le accuse contro di lui.
Fu questo l’antefatto del biennio critico: 1956-1957. Biennio nel corso del quale le cose peggiorarono. Stuart Schram – in Mao Tse-Tung e la Cina moderna. Dalla rivolta dei boxer alla rivoluzione culturale (il Saggiatore) – ha evidenziato come, per comprendere le dinamiche di questo conflitto in potenza esplosivo nel gruppo apparentemente compatto attorno a Mao, è fondamentale analizzare l’VIII Congresso del Partito comunista cinese (15-27 settembre 1956). Il rapporto politico tenuto da Liu Shaoqi nonché quello di Zhou Enlai sul secondo piano quinquennale furono inconsueti. Liu, in particolare, mise in luce come il contrasto tra proletariato e borghesia fosse «sostanzialmente risolto» e come la contraddizione primaria da quel momento in poi sarebbe stata quella «tra le relazioni socialiste di produzione relativamente avanzate e le forze di produzione arretrate». In pratica «il tema centrale di cui il partito avrebbe dovuto occuparsi non erano le questioni politico-ideologiche, semmai la liberazione e lo sviluppo delle forze produttive». Ancor più esplicito il discorso al congresso di Chen Yun, eminenza grigia della politica economica. Quel Chen Yun, destinato, come Liu, a cadere dieci anni dopo sotto i fulmini della Rivoluzione culturale (1966-1969).
Chen Yun sollevò in modo assai diverso da quello di Mao, il problema del superamento dell’applicazione del modello sovietico così come era stata fatta negli anni precedenti. Ma soprattutto «si oppose con forza alle campagne politiche che, a suo giudizio, interferivano con la produzione economica». E, pur essendo favorevole alla collettivizzazione dell’agricoltura, sostenne che i tempi della sua attuazione non dovessero essere «eccessivamente rapidi». A questo punto, fa osservare Samarani, va rilevato che, benché di fatto respinte nel 1956, «diverse tesi di Chen Yun avrebbero costituito il nucleo portante delle riforme avviate in Cina dopo la morte di Mao». Il che spiega molte delle cose che accaddero nei decenni successivi.
Mao non sollevò obiezioni immediate a tali analisi. Ma, a partire dagli inizi del 1957, le sue riserve cominciarono a manifestarsi, confermando la visione secondo cui «una vera ed effettiva società socialista» poteva essere «edificata e consolidata» solo «eliminando completamente il modo di produzione capitalistico e la proprietà privata dei mezzi di produzione». O, quantomeno, realizzando un pieno controllo sugli stessi, portando nel contempo in avanti la lotta rivoluzionaria di cui parte essenziale era «il processo di continua trasformazione della coscienza e della volontà del popolo».
In buona sostanza – come hanno messo in rilievo sia pure in modo meno nitido Jung Chang e John Halliday in Mao. La storia sconosciuta (Longanesi) e Yves Chévrier in Mao Zedong e la rivoluzione cinese (Giunti) – il leader cinese utilizzò quel Congresso – i cui lavori furono precedenti all’invasione sovietica dell’Ungheria – per stanare i potenziali avversari e prepararsi a farli fuori. A novembre Mao pronunciò un discorso (apparentemente strano) indirizzato contro coloro che avrebbero voluto «adottare il sistema parlamentare della democrazia occidentale». Ce l’aveva contro quelli che chiedevano libertà di stampa e libertà di parola, i quali, a suo dire, si rifacevano all’«armamentario» dei Paesi capitalisti. A noi, disse Mao rispondendo a questi presunti (e non identificabili) dirigenti che auspicavano l’introduzione delle regole occidentali, piace invece «la grande democrazia, quella diretta dal proletariato». Voi, li minacciava, «avete paura che le masse scendano per le strade». A me invece, proseguiva, non fanno paura «anche se fossero centinaia di migliaia». Se «non temiamo nemmeno l’imperialismo», proseguiva, «perché dovremmo temere la grande democrazia?». Avete paura forse che gli «studenti scendano per le strade?» C’è una parte dei membri del nostro partito che «teme la grande democrazia», fu la sua risposta retorica. E «questo non va bene». Un minaccioso annuncio, con dieci anni di anticipo, di quel grande sconvolgimento del 1966 che avrebbe preso il nome di Rivoluzione culturale.
Secondo Philip Short – in Mao. L’uomo, il rivoluzionario, il tiranno (Rizzoli) – fu nel corso della Rivoluzione culturale che il regime comunista cinese conobbe l’apice della tragedia. Ma tra le righe Guido Samarani lascia intendere che, pur senza mettere in discussione la catastrofe umana del triennio a cui l’uomo del libretto rosso diede il nome di Rivoluzione culturale (e che – va ricordato – sedusse una gran parte della gioventù occidentale dell’epoca), l’incubo si era intravisto già molto prima. Negli anni immediatamente successivi all’uscita di scena di Stalin, quelli in cui la Cina avrebbe potuto prendere la via indicata, sotto il profilo culturale da Hu Feng, sotto quello politico ed economico, da Chen Yun e, più timidamente, da Liu Shaoqi. Ma, per risollevarsi, dovette attendere gli Anni Ottanta, la stagione di Deng Xiaoping.