La Stampa, 23 gennaio 2024
Maledetti intellettuali
Abbiamo ancora bisogno degli intellettuali? A giudicare da certi talk show televisivi o dalle discussioni sui social, sembra che oggi il loro posto sia occupato da giornalisti e influencer: persone capaci di parlare di tutto – dalla guerra in Ucraina alle vicende giudiziarie di Chiara Ferragni – in tempi e modi tali da tenere viva l’attenzione (sempre più volubile) del pubblico.
Ogni tanto entrano in scena anche i “competenti”, titolari di conoscenze specifiche, chiamati ad offrire soluzioni a problemi concreti, dalla diffusione dei virus al riscaldamento climatico. Le loro opinioni vengono presentate perlopiù come “oggettive”, in quanto basate su dati di fatto: non parlano come “intellettuali”, ma come “tecnici”, soggetti neutrali rispetto alle scelte politiche.
Nella sua autobiografia – che gli proposi di scrivere con il giornalista de La Stampa Alberto Papuzzi – Norberto Bobbio ricorda come nel settembre del 1976 iniziò a collaborare con questo giornale. Ai primi di quel mese, aveva partecipato a un dibattito su democrazia e pluralismo alla Festa dell’Unità di Napoli con Aldo Tortorella, Nicola Badaloni e Biagio De Giovanni. Nei giorni successivi lo chiamò l’allora direttore Arrigo Levi, che voleva riprendere il tema sul giornale. Dopo molte esitazioni, Bobbio accolse l’invito: «Come potevo partecipare a un dibattito per alcune centinaia di persone e rifiutarmi di parlare a un pubblico molto più ampio?».
In risposta a quel suo primo articolo intervennero su La Stampa (ma anche su altre testate) leader politici del calibro di Giolitti, Ingrao, La Malfa, Zanone e Zaccagnini e filosofi, storici, sociologi e politologi, da Ferrarotti a Galasso, da Lombardo Radice a Passerin d’Entrèves.
Negli anni a seguire, Bobbio su La Stampa scrisse articoli su questioni molto diverse, mantenendo sempre però un legame forte con le sue competenze: anche quando si riferiva a fatti di attualità lo faceva in relazione a un punto di vista più generale, lo stesso che si ritrova nei suoi libri e che caratterizzava il suo impegno educativo.
Una visione non monolitica, ma aperta al dubbio metodico, di chi ritiene che si può sempre imparare ascoltando chi la pensa diversamente. Negli stessi anni in Italia si varavano grandi riforme – dal servizio sanitario nazionale al divorzio – che ampliavano i diritti sociali e civili. E la politica coinvolgeva milioni di persone sia attraverso l’attività dei partiti sia per impulso dei movimenti, mettendo a confronto diverse idee di società, che influenzavano poi l’azione del parlamento e del governo. Le case editrici, le riviste e i giornali erano luoghi di confronto tra chi lavorava nella scuola e nell’università e chi operava nell’economia, nella società e nella politica.
Poi lo scenario è cambiato. Come scrive Giorgio Caravale, docente di Storia moderna all’Università di Roma Tre, «gli intellettuali (umanisti) hanno oscillato tra l’ambizione di entrare nelle grazie del leader mostrandosi più realisti del re e l’istinto di ritirarsi sdegnati dall’arena del dibattito politico. La politica, per conto suo, ha ondeggiato in modo altrettanto schizofrenico tra l’esibizione di un profondo disprezzo nei confronti degli intellettuali e la scelta opposta di consegnarsi mani e piedi all’intervento salvifico degli uomini e delle donne di cultura».
Dunque siamo Senza intellettuali – come recita il titolo del libro di Caravale, che ripercorre la storia dei rapporti tra politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni? Ha ancora senso confrontare e discutere in pubblico diverse visioni del mondo, fuori dalla dittatura dell’audience, per fornire a cittadini motivati strumenti di scelta consapevole?
Domande che ci faremo mercoledì 24 gennaio al Circolo dei lettori discutendo il libro di Caravale con Chiara Saraceno e Juan Carlos De Martin. Questioni che ci riguardano assai più di quanto possa sembrare a prima vista: in un mondo agitato da eventi drammatici, abbiamo bisogno ancora di analisi e visioni d’insieme come quelle di Norberto Bobbio. Che sessant’anni fa, ad apertura delle sue Lezioni sulla pace e sulla guerra (raccolte adesso in volume) scriveva: «Oggi, nel 1964, ci pare che l’uomo non possa più risolvere i suoi problemi mediante la guerra, poiché essa ne crea altri ancora più grandi»