La Stampa, 23 gennaio 2024
I segreti del Palazzo dei veleni dove la Giustizia è un pozzo nero
Non deve essere stata un’operazione indolore quella messa in atto da Teresa Principato – in magistratura dal 1979 e oggi «liberata» dall’età pensionabile – nel momento in cui ha deciso di «svuotare i cassetti» e raccontare sé stessa come donna, madre, magistrato e moglie. Ci ha voluto «mettere la faccia», per usare un modo di dire oggi tanto di moda, incurante del fatto di doversi mettere a nudo per tenere fede all’impegno di perseguire un obiettivo di verità, come lei stessa dice introducendo il suo dolente diario.
Ne è nato un libro (Siciliana, Cronache di una vita di donna e magistrato in prima linea, Edizioni Fuoriscena, in libreria dal 23 gennaio)che non passerà inosservato e farà discutere soprattutto per la «crudezza» di un racconto che consegna al lettore una foto impressionante del famigerato «palazzo dei veleni» di Palermo, già noto alle cronache che hanno descritto le solitudini, le avversità di uomini giusti come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Storie in parte conosciute, ma ora rilette da una «testimone oculare» che appunta date, particolari e omissioni con una precisione chirurgica e quasi noncurante della sofferenza che ha prodotto sui sentimenti dell’autrice che va avanti senza incertezze quasi come stesse raccontando storie che non la riguardano personalmente. E invece ogni capitolo è parte della sua personale vicenda umana e professionale, come giustamente rivela Anna Finocchiaro, magistrato anche lei e politica, nella prefazione.
È una storia lunga, quella offerta da Teresa Principato. Certo, si tratta di una visione dichiaratamente di parte, ma è il «suo» racconto, una «rivelazione» che l’autrice presenta come «verità» corroborata da minuziosi riscontri. Una «rivelazione» che, siamo certi, provocherà non pochi risentimenti.
Il racconto parte da lontano, dalla fine dei Settanta quando però il Palazzo di giustizia di Palermo era già il luogo dei «veleni», dove un procuratore, Pietro Scaglione, era già stato ucciso tra mille ingiuste maldicenze e dove i vertici di quella magistratura finivano per essere scudo di un maligno intreccio istituzional-mafioso. E la galleria dei personaggi, tutti con nomi e cognomi, descritta dalla Principato, finisce per essere un lungo elenco di nomi discussi e discutibili.
Questo inizio è preceduto da una «storia essenziale», quasi di natura psicoanalitica, nella quale l’autrice si spoglia di ogni difesa e confessa il suo problematico rapporto («credito di affetti», dice) coi genitori e con la famiglia più in generale. Un momento della sua infanzia a Naro (profonda provincia) che Teresa Principato non esita a definire «medioevo». E poi la vita borghese tra le province di Agrigento e Caltanissetta dove conosce personalmente personaggi come Calogero Volpe, politico democristiano, ma anche feroce capomafia eppure ospite rispettato dei più accreditati salotti.
Esattamente come avrà modo di constatare da professionista quando Teresa Principato dovrà occuparsi di mafia e politica, impattando su processi di prima grandezza (Andreotti, Mannino, Dell’Utri, Cuffaro) che metteranno in crisi persino il matrimonio con Roberto Scarpinato, anche lui magistrato antimafia e oggi senatore, troppo preso dall’impegno professionale (soprattutto l’istruttoria su Andreotti) che non lasciava molto tempo per la cura degli affetti personali. Una dedizione totale al lavoro che Teresa individua anche come causa della «distanza» col figlio Giuliano, distanza ricomposta oggi che il ragazzo è diventato uomo.
Pagina dopo pagina il lettore viene spinto a guardare dentro un pozzo nero, lo «sguardo nell’abisso», popolato di mostri come quelli citati, come gli orribili boss stragisti e assassini, cadenzato da lutti e dolori per i tanti colleghi e amici assassinati durante l’infinita mattanza degli Anni Ottanta e Novanta. Storie rese più dolorose per il difficile rapporto col mondo di quella magistratura.
Nomi già consegnati alla memoria come «cattivi», per esempio il procuratore Pietro Giammanco, il presidente Curti Giardina o i colleghi trapanesi coinvolti della corruzione venuta fuori in seguito all’assassinio del giudice Ciaccio Montalto. Ma la Principato rivela anche il rapporto difficile con colleghi che l’immaginario colloca invece nella schiera di «amici». Dopo la stagione di Giancarlo Caselli, dalla Principato descritta come «felice», l’autrice rivela un momento critico con la gestione del procuratore Piero Grasso (poi presidente del Senato) che addirittura le avrebbe consigliato di «andare via» e ancor di più col procuratore Francesco Lo Voi, che le avrebbe impedito persino di indagare sulle collusioni mafia-massoneria emerse nelle indagini sulla cattura di Matteo Messina Denaro. Vere e proprie «rivelazioni», queste, per due personaggi (Grasso e Lo Voi) da sempre accreditati come amici di Giovanni Falcone. —