La Lettura, 22 gennaio 2024
Sul tatuaggio
La definizione di sottocultura è ampiamente superata, la «semiclandestinità» una volta riservata a galeotti, aristocratici, marinai, del tutto dimenticata. Il fenomeno è talmente di massa che dal 2016 è nel paniere Istat. E continua a crescere: che sia moda, vezzo, arte, che nasca dall’autodeterminazione, dall’emulazione, dalla ribellione, un tatuaggio è (quasi) per sempre e ha conquistato 7 milioni di italiani, quasi il 13 per cento. E c’è poco da meravigliarsi se si pensa che già nel Medioevo i pellegrini tornavano da Loreto con una «prova su pelle» del loro viaggio, che nel Settecento i tatuatori veneziani erano rinomati e che da allora la pratica non ha perso fascino. Anzi. È protagonista di rassegne (una delle più grandi, la Milano Tattoo Convention, si tiene in questi giorni), mostre (una aprirà a fine marzo al Mudec di Milano), libri. Un mistero oltre le tendenze. Anche se Gianmaurizio Fercioni, artista, scenografo, pioniere del settore, precisa: «Il tatuaggio è un gioco e come tutti i giochi va fatto sul serio e seguendo le regole».
I personaggi di anime e manga e tutto quanto ha a che fare con l’estremo Oriente; i mini e micro disegni (si chiama stile Fine Line) e le scritte dal tratto sottilissimo e poco invasivo «per addobbare il corpo come un tempio». Gabriele Di Cianni fa parte della direzione artistica della Milano Tattoo Convention (al Superstudio Maxi sono in arrivo 500 tatuatori e circa 20 mila appassionati) ed è editore della rivista online «Il tatuaggio magazine». Spiega novità e tendenze: «Da vent’anni l’universo del tatuaggio è sempre cresciuto, sono nate scuole, certificazioni obbligatorie per gli operatori: in Lombardia servono 1.500 ore di formazione per esercitare. Noi italiani siamo molto tatuati e preparati, fa parte della nostra storia volerci raccontare attraverso il corpo, ormai anche le donne ne sono convinte – rappresentano circa la metà della clientela – soprattutto grazie alle nuove tecnologie che assicurano massima precisione». La questione va comunque affrontata con consapevolezza, e per questo Di Cianni aggiunge: «Io sconsiglio di tatuarsi mani, collo e viso, a meno che non si abbia l’80 per cento del corpo già disegnato». E precisa: «Cancellare un tatuaggio è ancora molto costoso e doloroso». Soprattutto quando si tratta del colore rosso.
La chiama «età del tatuaggio», ma anche «età dell’immagine impressa», Federico Vercellone, ordinario di Estetica all’Università di Torino che nel 2023 ha pubblicato con Bollati Boringhieri il saggio Filosofia del tatuaggio. Il corpo tra autenticità e contaminazione. «La maggior parte degli italiani – analizza – si tatua per rivendicare la propria identità, per combattere la paura contemporanea di essere massificati, per rendersi indipendenti da un’omologazione sempre più violenta e rivelare un io autentico che non può essere cancellato dalla globalizzazione». Ma in questo modo, diventando una pratica alla portata di tutti, il tatuaggio, gesto anticonvenzionale per eccellenza, non rischia di diventare il massimo del conformismo? «È vero, ma visto che non ci sono più valori o ideali collettivi, e dal momento che il mondo è sempre più fatto di “villaggi mobili”, ogni tribù sente il bisogno di avere i propri segni di riconoscimento. Sono gli effetti di una società “superficiale” che evita l’itinerario della scoperta, che non vuole scavare ma rimane, è il caso di dirlo, a fior di pelle». Il filosofo si spinge oltre, parla di forma e narrazione, di un modo di pensare l’ordine universale, dunque anche quello estetico e politico, che non funziona più. «E allora significa che tra il tatuaggio e il franare delle forme politiche tradizionali, il decadere delle democrazie nei populismi, c’è una continuità e una contiguità segreta».
Un altro paradosso: l’evoluzione del tatuaggio da segno definitivo, indelebile (è anche questa la sua bellezza profonda) a decalcomania. «Sono stufo, lo cancello». Per ora, come ribadisce Di Cianni, non è così facile liberarsi di una vecchia scritta, del nome della fidanzata, degli effetti di una gita «brava» tra amici (per chi ricordasse il film Una notte da leoni 2, con uno dei protagonisti che si ritrova sulla faccia lo stesso tatuaggio di Mike Tyson). Al limite si possono coprire, come in un reality Netflix del 2021 (Tattoo Redo). Implorando di riparare il danno. Ed ecco che entrano in gioco gli artisti.
«Un terzo del mio lavoro oggi consiste nel coprire tatuaggi non miei che sono sbiaditi, venuti male, o di cui il cliente è pentito». A parlare è Gianmaurizio Fercioni, considerato il padre del tatuaggio italiano. Milanese, diplomato nel 1970 all’Accademia di Brera, è scenografo per il cinema e il teatro, fondatore nel 1972 con Andrée Ruth Shammah, Franco Parenti, Giovanni Testori e Dante Isella del Salone Pier Lombardo per il quale ha curato scene e costumi di oltre quaranta spettacoli. E, ovviamente, tatuatore. Nel 1970 ha aperto a Milano il primo studio di tatuaggi: oggi il suo «Queequeg Tattoo Studio & Museo» (dal nome dell’arpioniere Maori in Moby-Dick) è conosciuto in tutto il mondo ed espone una collezione di strumenti moderni e primitivi, tavole originali di disegni per tatuaggi provenienti da varie parti del mondo, stampe d’epoca e fotografie. Fercioni è uno di quei tatuatori «romantici», «etici», vecchio stile, che si rifiuta di «disegnare» mani, faccia, sotto i piedi (salvo eccezioni ironiche, del tipo: su un piede la scritta «sono stanco» e sull’altro «anche io»), ed è «abbastanza contrario al collo». Non gli piace tatuare i minorenni a meno che non siano i genitori a pregarlo, «se no va da uno che non so chi sia»; sa riconoscere i desideri e le paure di chi arriva nel suo studio di via Mercato; se non è «convinto della convinzione altrui» dice: «Passa tra qualche giorno che preparo il disegno». Naturalmente conosce (e ha studiato e pratica) tutti gli stili e non ne impone nessuno: «Chi vuole entra e sceglie».
Fercioni può contare tra i suoi clienti personaggi dello spettacolo (come il regista e amico Gabriele Salvatores: gli ha tatuato anche un veliero, tra i suoi marchi di fabbrica), della musica (Eros Ramazzotti), dello sport. Ha viaggiato, osservato e imparato dai migliori del mondo (la tecnica a mano tradizionale giapponese l’ha acquisita dal maestro Horiyoshy III). Le sue specialità sono i classici marinari: sirene, ancore, vele. Il segreto, dice, è avere fatto sempre due lavori, il teatro e il tatuaggio, che però hanno alcuni tratti in comune: «Per esempio nelle Nozze di Figaro è un tatuaggio, un segno sul braccio, a consentire il riconoscimento di Figaro». Crede che il mestiere del tatuatore (quello almeno di una volta) consista nel fare affiorare sulla pelle quello che era già presente nell’anima della persona, nel suo vissuto. E che farsi tatuare sia «un atto di espressione definitivo, irrazionale e intimamente personale». Un gesto «serio e profondo, ma anche un gioco».
Luisa Gnecchi Ruscone, oltre a essere moglie di Gianmaurizio Fercioni, è autrice di saggi sulla storia del tatuaggio, sui grandi maestri, sulle tecniche e le iconografie, ed è curatrice della mostra Tatuaggio. Storie dal Mediterraneo, dal 28 marzo al Mudec di Milano, rassegna che percorre oltre 7 mila anni di storia umana: da Ötzi, la mummia tatuata (ne aveva 62, si è scoperto, a scopi terapeutici) di 5 mila anni fa trovata al confine con l’Austria, agli schiavi in Egitto fino ai tatuaggi delle donne curde nei campi profughi siriani. «Gli italiani sono tra i più tatuati al mondo anche perché sono modaioli», dice la studiosa. «E hanno sempre scelto di segnare il proprio corpo, dai pellegrini di Loreto ai crociati di ritorno da Gerusalemme. Il tatuaggio nel nostro Paese c’è sempre stato, ma prima la tendenza era nasconderlo, ora lo si esibisce. E negli ultimi vent’anni abbiamo assistito all’esplosione del fenomeno. Oggi la scelta è, nella maggior parte dei casi, estetica. Ma come diciamo sempre nello studio di mio marito, chi entra deve sapere che il tatuaggio è indelebile». Bisogna essere un po’ psicologi e molto seri per rifiutare le richieste di coppie sull’orlo della crisi o di forsennati neofiti. «Ma per un tatuatore – aggiungono in coro Fercioni e Gnecchi Ruscone – il più grosso dispiacere è che qualcuno torni pentito».
Segreto e massificato, unico e seriale, simbolo e ornamento, pulsione primaria e segno del tempo. Nonostante tutto (il successo, la sovraesposizione), il tatuaggio resta ancora un mistero da indagare, da scavare. Ambrogia Cereda è sociologa della cultura, insegna agli studenti stranieri dell’Università Cattolica di Milano e da anni si occupa dell’«universo tatuaggio»: suoi i libri Il racconto del corpo: il tatuaggio tra autobiografia e narrazione collettiva (Vita e pensiero, 2006) e Tracce d’identità. Modificare il corpo, costruire il genere (Franco Angeli, 2010). Osserva: «Assistiamo all’esasperazione di un processo avviato negli anni Novanta: le star del cinema e della tv hanno cominciato a tatuarsi e il pubblico le ha seguite. Con il passare dei decenni i social hanno amplificato il fenomeno, il tatuaggio si è democratizzato, è più accessibile e sicuro, i tatuatori si sono professionalizzati. Questo per dire che in epoca postmoderna il tatuaggio è diventato uno dei tanti servizi al corpo, rientra anche in una forma di attenzione per sé stessi pur mantenendo la funzione di segnare le tappe della vita di chi lo “indossa”».
La propria biografia sulla pelle. «Ognuno ha i suoi motivi per tatuarsi, bisogna prenderne atto». La docente non demonizza il fenomeno, anzi: «È una scelta positiva se si ha la consapevolezza di volere dare una possibilità in più al proprio percorso identitario». Del resto, conclude la docente, «in mancanza di riferimenti forti, ognuno sceglie l’elemento decorativo che preferisce. La carica anticonformista si è persa, le grandi narrazioni sono crollate: a che cosa agganciarsi se non al corpo?».