La Lettura, 22 gennaio 2024
Storia del tatuaggio
Su una spiaggia della Liguria, un uomo esibisce ampi tatuaggi sui bicipiti: linee curve e forme astratte e geometriche si alternano con regolarità, il colore della pelle chiara contrasta con l’inchiostro nero. A ventimila chilometri di distanza, su un’isola della Polinesia francese, un oceaniano mostra sulla parte alta del braccio un tatuaggio del sacro cuore di Gesù. In Liguria i «veri» simboli polinesiani del tatuaggio; in Polinesia francese un motivo cristiano.
Si tratta solo di un esempio, perché in entrambe le località la recente (ri)diffusione del tatuaggio di massa ha visto proliferare ogni tipo di motivi. È tuttavia un esempio della strana storia dei tatuaggi. Anche se sono documentati fin dall’antichità, i tatuaggi come li conosciamo oggi vennero introdotti in Europa dopo i viaggi di esplorazione dell’Oceania da parte di James Cook, alla fine del Settecento. Furono quelle spedizioni a raccogliere documentazione e il nome stesso: «tatuaggio» viene da tatau, termine che significa «incidere», «tagliare». Appena gli inglesi videro in patria i primi polinesiani tatuati, nel corso di tournée in fiere e circhi, ne furono molto colpiti. Ben presto però il fascino estetico ed erotico del tatuaggio fu condannato dalle Chiese e dai governi. Il tatuaggio fu bandito: a tatuarsi erano galeotti, prostitute, vagabondi. Quando visitai per la prima volta il Museo Lombroso di Torino, prima del nuovo allestimento, si potevano ancora vedere strati e strati di pelle tagliati dal criminologo a «matti» e detenuti, lui che considerava il tatuaggio come un marchio di criminalità.
Nelle colonie intanto i missionari aborrivano e proibivano il tatuaggio. Scomparvero gli specialisti, i tufuga, maestri dell’arte; scomparvero gli attrezzi; scomparve a volte la memoria. Ma non i motivi: la dimensione grafica dei tatuaggi si trasferì sulle stoffe di corteccia, sulle decorazioni di oggetti lignei, su vasi di terracotta. Non era un fenomeno nuovo: i tatuaggi sui corpi umani imitavano in Oceania, già alle origini, immagini prima impresse sulla ceramica detta lapita. A partire dai tardi anni Sessanta del secolo scorso, il tatuaggio fa la sua ricomparsa nelle contro-culture giovanili americane. Un inizio timido e spesso bollato come «deviante», prima di diventare moda di massa. Il recupero occidentale trascinò a sua volta la rinascita nei contesti indigeni oceaniani, talvolta con le curiose «inversioni» da cui eravamo partiti: giovani occidentali che cercano i «veri» motivi oceaniani e giovani oceaniani che incorporano simboli cristiani e loghi commerciali.
Un lavoro di Sean Mallon e Sébastien Galliot (Tatau. A History of Samoan Tattooing, University of Hawaii Press, 2018), ricostruisce pratiche e significati del tatuaggio nell’unico arcipelago in cui questa forma di arte non scomparì con la colonizzazione, le Samoa. Segni estetici di bellezza, punti culminanti di cerimonie di ingresso nell’età adulta, marchi del potere dei capi, parte di cerimonie di condivisione del dolore, pratiche di costruzione del maschile e del femminile: il tatuaggio racchiude una pluralità di storie e sguardi sull’umano e non è riconducibile ad alcun archetipo.