Linkiesta, 22 gennaio 2024
Il complesso di “Beautiful” e quelli che non capiscono le citazioni dei classici
Negli anni Novanta, Pietro Citati aveva sessant’anni e spicci. L’inserto del Corriere, Sette, gli telefonò perché dedicava una copertina a Stephen King. La sua risposta fu: non ho ancora letto le “Upanishad”, si figuri se leggo Stephen King.
Io, che avevo vent’anni, ero – benché non lettrice di Stephen King – convinta che sapere il presente fosse dovere morale degli intellettuali. Ciononostante, feci per molti anni mia la risposta, che poi scoprii essere uno schema fisso degli intellettuali: qualcuno mi raccontò che Carlo Fruttero diceva la stessa cosa, ma con Guerra e pace al posto delle “Upanishad”.
La feci mia nella dialettica ma non nella vita, vita nella quale, fin verso i quarantasette anni, m’è parso importantissimo essere in pari col consumo culturale di moda in quel momento. Con dei limiti, chiaramente: non è che mi sia mai messa a vedere Stranger Things o a leggere Sally Rooney – però un po’ avevo ancora il complesso di Beautiful.
Dicesi «complesso di Beautiful» quello sviluppato in quinta liceo, allorché Rai2 cominciò a trasmettere le vicende dei Forrester e dei Logan, e io mi rifiutai di guardarle perché ero una fedelissima di Quando si ama e non intendevo avere altra soap all’infuori di quella. Mi rifiutai per qualche settimana, poi non sopportai più di non capire di cosa parlassero le mie compagne di scuola all’intervallo, e mi arresi alla moda del momento.
Il complesso di non capire la conversazione collettiva è ovviamente stato acuito dai social e dai telefoni con dentro le vite degli altri: se tutto ti arriva in tasca, tutto ti riguarda. Se tutti parlano d’un’imitazione che c’è in un varietà, puoi tu non averla mai vista? Se tutti parlano della recensione d’una pizzeria, puoi tu non interessartene? Se tutti parlano dell’esonero da allenatore di Caio, della sfilata di Tizio, della canzone di Sempronio, puoi tu permetterti di sentirti esclusa?
A diciott’anni io certo non avevo le spalle abbastanza larghe da fare la controcorrentista (sui Forrester, poi: già preferivo gli Spandau ai Duran, la mia vita era già abbastanza faticosa); ma avevo un vantaggio: il pop aveva poco più di trent’anni.
Erano meno i film, infinitamente meno le serie televisive, persino i libri erano un numero finito, non come adesso che chiunque faccia mestieri culturali dovrebbe passare le sue giornate a fare post sul romanzo dell’amico Caio e sul saggio della conoscente Sempronia, che altrimenti si offendono ma soprattutto ti chiedono ossessivamente come mai non parli della loro, santiddio, ultima fatica.
Adesso Guerra e pace e l’ultimo Stephen King sono davvero alternativi l’uno all’altro, perché nessuno – non noialtri che siamo pagati per leggere e vedere cose e così passiamo le nostre giornate, e certamente non i commercialisti o i cardiochirurghi che leggono dieci pagine prima d’addormentarsi – può star dietro a tutto.
Un paio d’anni fa ho conosciuto una trentenne non particolarmente stupida o ignorante che, quando ho detto «m’hanno rimasto solo, quei quattro cornuti», non ha riconosciuto la citazione dai Soliti ignoti (ma ha avuto la delicatezza di non chiedermi se fosse un quiz). Richiesta di come fosse possibile non avesse mai visto una delle più note commedie della storia del cinema italiano, mi ha risposto che su Netflix ogni settimana ci sono almeno quattro cose nuove che non si possono non vedere: come si fa ad aver tempo di recuperare i classici?
(Questo è il punto in cui quelli che non studiano niente ma commentano tutto mi dicono che non è I soliti ignoti, è “L’audace colpo”: perché i classici non li conosce nessuno, ma Google ce l’hanno proprio tutti, e sono convinti sia un presidio culturale).
Raccontano che un giovane attore e regista non si capaciti che l’ex fidanzata non voglia più stare con lui non avendo, tapina, intenzione di passare le serate con la famiglia di lui; serate in cui il padre di lui, anch’egli attore e regista, dopo cena declama Čechov. La scena è molto bella – a me, che sono cresciuta in anni in cui si guardavano i classici su Rai1 perché non c’era altro da fare, ricorda Melania Hamilton che legge Dickens a Rossella e alle altre mentre gli uomini sono ad ammazzare un po’ di gente – ma mi chiedo: la ragazza saprà chi sia Čechov?
Non dico averlo letto, ma anche solo averlo sentito nominare, non scambiarlo per un titktoker, per un concorrente di X Factor, per uno chef stellato. E lo dico da appartenente a una generazione che a Čechov è arrivata tramite il beccaccino, che se avete la mia età sapete già che è la gag che in Turné che faceva Abatantuono quando Bentivoglio dimenticava le battute del Giardino dei ciliegi, e se invece siete di qualche disperata generazione di questo secolo io non so proprio cosa dirvi.
L’altro giorno un amico cercava di convincermi a vedere un film che è al cinema, non importa quale: un qualunque film che, essendo un film e non un argomento che ti fa sentire escluso se non sei in pari (cioè: non essendo Barbie, non essendo la Cortellesi, non essendo Oppenheimer), io non avevo visto, e come me altri sessanta milioni di persone.
L’amico sì, e non sapeva con chi parlarne: la solitudine di chi ha consumi culturali che non siano il titolo giusto di Netflix o quel cinema che non è più cinema ma, che il dio delle parole mi perdoni, evento, quella solitudine lì è più temibile di quella della Pausini.
Gli ho spiegato quel che conoscendomi da una vita dovrebbe sapere: sono ormai anni che non vedo, rivedo, non leggo, rileggo. Faccio pochissime eccezioni, lascio entrare pochissime novità, e mi trovo bene così. Mi ha detto che sembravo una che apre la porta a un rappresentante della Folletto e gli dice no guardi, mi trovo bene con l’aspirapolvere che ho.
Ho riso, ma non mi sono messa a discutere. Già, poche ore prima, m’ero presa la predica d’un’amica che intendeva convincermi a vedere The Holdovers, che vedrei anche per devozione amorosa verso Giamatti, ma Payne è un regista noiosissimo e passerei due ore a pentirmi di non averle trascorse a rivedere un classico.
Se questa fosse una conversazione privata, ora l’interlocutore mi direbbe: ma vale anche per te, cosa scrivi libri nuovi a fare se il criterio è questo? Me lo dicono sempre tutti gli amici con cui peroro la causa dei classici, me lo dicono fingendo di non preoccuparsi per le novità che producono loro ma per quelle che compilo io.
Forse persino più fondativo del momento Citati/Upanishad, è stato per me il post social d’un tizio che non conosco, ma che tra i libri letti nell’anno che finiva ne citava uno mio. In conclusione, il tizio si augurava, nell’anno successivo, di leggere finalmente Cent’anni di solitudine. C’è qualcosa che può indurre maggiore strazio e senso di colpa e idea della fine del mondo che scoprire che c’è qualcuno che non ha letto Cent’anni di solitudine e perde tempo con Sorcioni?
Da quando ho smesso di vedere cose nuove, ho smesso anche di leggere i giornali. Credo sia quella cosa che diceva Martin Amis: non perdo tempo con cose che non hanno passato il vaglio del tempo. Cosa volete che me ne freghi di leggere (o di scrivere) del fattarello del giorno, che oggi ci sembra il centro del mondo ma tra tre mesi non capiremo i riferimenti che oggi ci paiono scontati. L’attualità va bene per chi ha il terrore del silenzio, io non sopporto il rumore.
Qualche settimana fa ho rivisto C’è posta per te (nel senso di Nora Ephron, non della De Filippi), e ho pensato che Tom Hanks che si esprime a mezzo citazioni del Padrino funzionava venticinque anni fa, quando Il padrino ne aveva ventisei, e funziona ora che è uno splendido cinquantunenne. Un classico è un’opera di cui non smetti mai di cogliere le citazioni. Tutto il resto è complesso di Beautiful.