La Stampa / Il Giornale, 22 gennaio 2024
Paris Hilton si racconta
Il dottor Edward Hallowell, autore di Driven to distraction, dice che il cervello con Adhd (Disturbo da deficit di attenzione/iperattività) è come una Ferrari con i freni di una bici: potente, ma difficile da controllare. Il mio Adhd mi fa perdere il telefono, però mi rende anche quella che sono, quindi se devo amare la mia vita devo amare anche il mio disturbo. E io la mia vita la amo.È giugno 2022, e sto vivendo una delle settimane migliori di sempre. La mia amica Christina Aguilera, che è anche mia vicina di casa, mi ha invitata al Pride di Los Angeles: sarò uno dei suoi ospiti speciali supersegreti. Mentre gli assistenti portavano fuori di casa la mia attrezzatura da dj ero così nervosa ed emozionata che sono uscita senza scarpe. Mi sono presentata nella roulotte del backstage in canottiera, pantaloni da ginnastica di velluto e calzini. E la cosa si è fatta ancora più imbarazzante quando mi sono infilata nel camerino sbagliato! Dentro c’erano dei ballerini che si stavano cambiando e che quando mi hanno vista si sono messi a gridare di gioia. E via con i selfie, ovviamente.Cerco sempre di farli io, del tipo che prendo la fotocamera dell’altra persona e la inclino verso il basso – mossa importante se sei alta, perché così eviti inquadrature poco lusinghiere stile “interno narici”. Può anche capitare che chi mi ha chiesto il selfie sia agitato e un po’ timido (cosa che capisco benissimo), e che quindi gli tremino le mani. Insomma, scattiamo, con i vari «Loves it!», «Sliving!» d’ordinanza, dopodiché me ne vado con i miei calzini esibendomi in quello che mio marito Carter definisce “il trotto dell’unicorno": non proprio una corsa, più aggraziato di un galoppo, non tanto dei saltelli quanto un balletto. Faccio veramente fatica a camminare lenta.Dunque eccomi lì, al Pride, con Christina e altre 30 mila persone circa tutte agghindate di arcobaleni e lustrini, a ballare, ridere, stringere abbracci. Durante il dj set mi diverto da matti; mi sono esibita subito dopo Kim Petras, che l’anno scorso ha cantato al mio matrimonio una splendida versione acustica di Stars are blind e poi Can’t help falling in love mentre io e Carter camminavamo lungo la navata – ecco perché mi sono venute le lacrime agli occhi la settimana scorsa quando, al matrimonio di Britney Spears, dopo tutti quegli anni da incubo, la nostra magnifica principessa-angelo ha fatto il suo ingresso in Versace (e sottolineo Versace, signori) sul sottofondo di quella leggendaria canzone di Elvis Presley che è stata cantata a milioni di matrimoni a Las Vegas, città in cui, nel 1969, mio nonno Barron Hilton inaugurò la tradizione dei residency show proprio con Elvis, al Las Vegas Hilton International, aprendo la strada a Britney e tanti altri artisti rivoluzionari che con quel sistema hanno fatto faville, in un perfetto esempio di come la visione creativa di una persona possa innescare una cascata di genialità che si protrae nel futuro. Un altro esempio perfetto: il mio bisnonno, Conrad Hilton.Fermi un attimo: dov’ero rimasta? Al Pride! La folla. Oh, mio Dio. Energia. Amore. Luce. Spirito indistruttibile. Sono dietro la consolle. È come pilotare una navicella spaziale con a bordo le persone più cool di tutta la galassia. Il mio set ruota attorno a pezzi leggendari quali Toxic, oltre al pazzesco remix firmato BeatBreaker di Genie in a bottle di Xtina, regina della serata, più tanti altri pezzi originali o remixati bellissimi che dovrei mettere sul podcast o su YouTube, perché è stato un set davvero divertente. (Nota per me stessa: creare una playlist per questo libro.) Ero talmente concentrata (altra nota per me stessa: aggiungere alla playlist Ultra naté) che solo a metà esibizione mi sono accorta di aver dimenticato il telefono sul bancone della roulotte dove avevo fatto i selfie con i ballerini mezzi svestiti. Cazzo. Cerco di non dire continuamente “cazzo”. Non voglio abusarne, perché è una parola davvero utile in tante occasioni. Protagonista di mille locuzioni. “Cazzo” è un salvagente. E allora, cazzoooooooooooo! Perché senza il telefono io mi sento nuda e vado in mega paranoia pensando che qualcuno possa rubarmelo e diffonderne il contenuto su Internet, cosa che è successa più di una volta. Quindi ringrazio Cade – migliore amico, angelo custode – che a set concluso è corso a recuperarlo. Dopo siamo andati tutti in centro alla festa che io e Christina abbiamo organizzato alla Soho House.In questo momento sono a casa con i miei amori: Diamond Baby, Slivington, Crypto, Ether e Harajuku Bitch, la chihuahua leggendaria. Su le mani per Harajuku Bitch! Ha ventidue anni. E se ogni anno nostro equivale a 7 dei loro, in pratica ne ha ben 154! Dorme 23 ore al giorno e sembra Gizmo dei Gremlins, però è ancora qui a godersi la vita. So che, una sera o l’altra, tornerò a casa e scoprirò che si è addormentata per sempre. Pensarci mi spaventa molto, è un pensiero intrusivo che detesto. I pensieri intrusivi sono la mia nemesi: si fanno largo attraverso la gioia anche dopo un evento epico, vissuto insieme a persone capaci di farmi letteralmente volare, e nonostante un marito che mi aspetta paziente a letto mentre io vado a farmi il bagno e mi occupo della skincare – operazione che, lui lo sa, non salto mai.Sin da quando io e mia sorella eravamo bambine, nostra madre ci ha trasmesso l’importanza di prenderci cura della nostra pelle; durante questo rituale confortante sento sempre la sua presenza con me. Se eseguita correttamente, la skincare equivale a prendersi un momento di dolcezza in un mondo tanto aggressivo. Togli la maschera – quella coraggiosa, quella buffa, quella autorevole, la scorza – e rivedi te stessa, ripulita e rinvigorita. Ed è come dirsi: “Ok, sto bene”. Quando ti sei appena lavata la faccia senti tutto in maniera più intensa, come un neonato quando prende la prima boccata d’aria. Una mattina, mentre a colazione preparavo frittata e french toast ai fiocchi di mais insieme a Kim Kardashian, lei mi ha detto: «Non conosco nessuno che faccia festa quanto te e che abbia l’aspetto che hai tu». Skincare. Dico sul serio. Se non vi resterà nient’altro della mia storia, ricordatevi almeno questo: la skincare è sacra. La maggior parte delle donne che si facevano di cocaina negli anni ’90 è arrivata ai primi 2000 distrutta. Vederle è stato un forte deterrente. Non dirò di non averla mai provata, ma non avevo intenzione di sacrificare la mia pelle. Lo stesso con le sigarette. Tanto varrebbe tirarsi una badilata in faccia. A oggi, l’unica cattiva abitudine che ho è l’abbronzatura spray. Mia sorella Nicky non la sopporta, io invece ne sono abbastanza dipendente. Per il resto, io e Carter ci teniamo molto al benessere e alla cura della pelle. Il nostro motto è: «Per sempre non basta». Prenderci cura di noi stessi è qualcosa che facciamo l’uno per l’altra per amore. Vogliamo che la nostra vita, così bella, duri a lungo. —
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E ro in Australia quando (Jason Moore) mi chiamò per dirmi che un video di trentasette secondi in cui facevo sesso stava circolando su Internet.
La mia prima reazione fu: «Cosa? No! Non ho mai fatto niente del genere».
Pensai che qualcuno avesse creato un falso o robe del genere. Mi ci volle un attimo prima di ripensare a quella registrazione privata. Dovetti chiudere gli occhi e fare un respiro profondo. Mi veniva da vomitare. Era una cosa inconcepibile, per me. Non c’era motivo di pensare che un tizio incontrato a caso in un bar potesse essere così infame. O furbo.
Nel giro di qualche ora la notizia di quel video si diffuse a macchia d’olio, accompagnata da voci secondo cui sarebbe seguito un porno in versione integrale. Vidi tutto ciò per cui avevo lavorato così duramente crollarmi davanti agli occhi.
Gli telefonai e lo supplicai. «Ti prego, ti prego, ti prego, non lo fare».
Lui fu freddo e distante. Disse che ormai era troppo tardi, circolava già. Aggiunse che aveva tutto il diritto di vendere una cosa che gli apparteneva una cosa che aveva un grosso valore economico.
Più valore della mia privacy, ovviamente. Della mia dignità. Del mio futuro.
Venni travolta da un’ondata di vergogna, sconfitta e puro terrore. Riagganciai cercando di pensare a quale avrebbe dovuto essere la mia mossa successiva. Avrei dovuto dirlo ai produttori del programma. Peggio ancora, avrei dovuto dirlo ai miei genitori. No, non ce la potevo fare. La mia prima reazione fu piangere come una disperata, con i singhiozzi che salivano dal profondo del petto e mi scuotevano tutta. Mi sentivo come se la mia vita fosse finita, e per molti versi era così. Di sicuro la carriera che mi ero immaginata non sarebbe più stata possibile. L’idea che avevo del mio brand, la fiducia e il rispetto che stavo cercando di ricostruire con i miei genitori, quel briciolo di autostima che ero riuscita a riconquistare tutto demolito in un istante. Il lavoro per The Simple Life e il successo della mia nuova attività mi avevano permesso di coltivare un seme interiore di forza e sicurezza. All’improvviso, non lo sentivo più. Ecco che il vecchio peso mi ripiombava addosso.
Presi un volo per tornare negli Stati Uniti cercando di nascondermi dietro agli occhiali da sole, ma la signora seduta accanto a me capì che stavo piangendo.
«Tutto ok?» mi chiese.
Feci di no con la testa.
Durante le quattordici ore di volo quella donna si dimostrò di una gentilezza incredibile, finché alla fine mi sfogai e le raccontai quello che stava succedendo. Il giorno dopo ero sulla copertina dell’Us Weekly con il titolo «Esclusiva Paris Hilton: la mia versione dei fatti» o qualcosa del genere.
La mamma era furibonda. «Perché rilasciare un’intervista senza aver neanche avuto il tempo di riflettere
È stata «l’ereditiera» per antonomasia dei primi anni Duemila, un’icona di apparenza e denaro, visibilità e sogni, leggerezza e scandali... Una donna da prima pagina, sicuramente, Paris Hilton: che oggi, alla soglia dei 43 anni (che compirà il 17 febbraio) si racconta nella sua autobiografia «Paris. La mia storia», in libreria da domani per Magazzini Salani (pagg. 416, euro 18). Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo in anteprima il brano del libro in cui si racconta la famosa vicenda del video hot girato nel 2003 e che suscitò moltissimo clamore.
su quello che è successo?»
«Ma non ho rilasciato interviste!» continuavo a ripetere io. Poi mi sono ricordata di quella donna in aereo. Probabilmente aveva registrato tutta la conversazione. Non so chi le abbia ceduto il posto accanto al mio, ma immagino che suo figlio sia andato in qualche prestigiosa università a mie spese.
La clip di trentasette secondi fu, credo, una sorta di test: un’anteprima per saggiare l’entità della questione, per capire quanto scalpore avrebbe suscitato, quanta gente avrebbe pagato per vedere. Penso che qualcuno ne avesse bisogno per decidere quanto investire su produzione e distribuzione. Se l’intenzione era quella, funzionò. Fu un grosso, grosso affare. Si capì subito. Lo scalpore, neanche a dirlo, fu enorme, grazie al facile mix di ingredienti comici: possibilità di fare battute sulle bionde, di salire in cattedra e sentirsi migliori degli altri, di umiliare una persona che fa una vita privilegiata. Era una specie di versione vietata ai minori dei filmati divertenti che passano in tv dopo cena.
Quando uscì la versione integrale, il prezzo di partenza era di circa cinquanta dollari, sul quale probabilmente c’era un margine di guadagno enorme visto che nessuno dovette investire un centesimo nel marketing. Ci pensarono, gratuitamente, comici televisivi, blogger e giornali scandalistici. Il video era ovunque e chiunque ne parlava, scuoteva la testa e decretava che ero senza pudore. Buffo che nessuno mettesse in discussione il pudore di chi invece guardava filmini a luci rosse con ragazze adolescenti. (...)
L’impatto che ebbe quel video sulla mia carriera è impossibile da quantificare, ma l’aspetto in assoluto peggiore di tutto questo orrore furono le conseguenze per la mia famiglia. Mia madre si mise a letto e ci rimase. Mio padre, furioso e con il viso paonazzo, stava perennemente al telefono con avvocati ed esperti di comunicazione per aiutarmi a limitare i danni. Il primo pensiero fu di sguinzagliare un branco di avvocati inferociti, ma alla fine intuimmo che le denunce non avrebbero fatto che suscitare ancora più clamore. Il consiglio ricorrente della mamma era «Non gettare benzina sul fuoco», e mi sembrava sensato. Funziona spesso così, in un mondo dove distruggere è molto, molto più facile che costruire.