La Stampa, 22 gennaio 2024
Quel che resta della Magliana
Taglieggiano disperati che si ostinano a tener su la saracinesca o strangolano con bische e prestiti. Si spaccano di cocaina. Scimmiottano il fraseggio. Si mostrano tronfi nelle discoteche – Dom Perignon White gold edition da 11mila euro – ma in fondo rimangono imitatori scadenti, pagliacci violenti, insomma, tutto chiacchiere e gargarismi criminali. La banda della Magliana, il gruppo che ha fatto inginocchiare Roma Urbe per 15 anni di sangue, si sbiadisce negli almanacchi, finita la saga nera, terminata la rappresentazione su pellicola del Freddo, Renatino e il Libanese, rimane il ricordo di qualche ex che declina la vita passata, ancora al presente.
Ne deve saper qualcosa Antonio Mancini, abruzzese trapiantato nel quartiere romano di san Basilio, l’Accattone della batteria, elevato a boss per poi diventare collaboratore di giustizia. Solleva l’attenzione sul “gruppo Carminati”, sostenendo che la banda è ancora attiva e pericolosa. Ma davvero è così? «La banda della Magliana non ha eredi – spiega Giovanni Melillo, procuratore nazionale antimafia -, se al contrario oggi c’è un luogo dove rilevare plasticamente la generale tendenza delle criminalità organizzate a integrarsi, tra loro questa è proprio Roma». Insomma, un tempo c’era il cartello della banda che univa Acilia, Testaccio e appunto Magliana oggi le mafie si mescolano e fortificano: «Qui operano mafie tradizionali come locali di ‘ndrangheta, proiezioni affaristiche di camorra e Cosa Nostra – prosegue Melillo – ma anche organizzazioni straniere, albanesi e cinesi che non gestiscono più settori marginali del ciclo ma snodi cruciali».
«La Magliana? In attività, vediamo epigoni e reduci riciclati in altre attività – spiega Otello Lupacchini, giudice istruttore di diversi processi sul gruppo – ma parlare di banda della Magliana sopravvissuta è un’idiozia. Qualcuno può averne riciclato reputazione criminale, carica di violenza ma non è la vecchia banda che aveva una sua specificità e, soprattutto, una collocazione socio-politica senza uguali».
In effetti, la tesi fotografa la parabola di Salvatore Nicitra, ex boss proprio della banda finito in manette nel 2020, insieme a 38 sodali, come nuovo “re di Roma nord”. Negli anni della Magliana era una figura secondaria, nel 1993 un pentito storico come Maurizio Abbatino, lo descriveva così: «Siciliano, con trascorsi di rapinatore, venne anch’egli “arruolato” nella banda per la conduzione di circoli privati, per la commercializzazione della droga nella zona di Primavalle, per la sua capacità di gestire il gioco». Si era fatto amico dei grandi capi della Magliana, come Franco Giuseppucci per diventare referente di Enrico De Pedis poi finita la banda, tra una detenzione e l’altra, Nicitra è sopravvissuto, cresciuto per quarant’anni a slot e crimine sempre in penombra sino a diventare appunto il monarca a Roma nord. Con opulenza e sfarzi, mega villa, piscina circondata da statue, insomma cafonate da far invidia ai Casamonica che del pacchiano detengono incontrastati la palma d’oro: «Io sono un boss, metto macchinette e slot machine dove voglio – si vantava tronfio al telefono – Su tutta Roma». Certo, a Nicitra sequestrano beni per 13 milioni di euro ma siamo sempre comunque lontani dai tesori della Magliana, sia in denaro (con i depositi segreti allo Ior, la banca vaticana) sia in relazioni, Nicitra avvicina agenti di commissariato, la Magliana s’intrecciava con i segreti e i poteri del Paese.
Oggi il gruppo più numeroso della banda è finito sotto due metri di terra, gente ammazzata o morta per anzianità. A iniziare proprio da Giuseppucci, il boss vicino a Nicitra, a fondatori come Nicolino Selis, a delinquenti come Edoardo Toscano e Gianni Girlando. Più interessanti le figure decedute in circostanze inquietanti e poco definite.
Come Danilo Abbruciati, detto Er Camaleonte, il 27 aprile 1982 salì a Milano per uccidere il ragioniere Roberto Rosone, braccio destro di Roberto Calvi del banco Ambrosiano, il banchiere dei segreti, quello che chiedeva allo stesso Rosone “sigle di solidarietà” sui fidi concessi senza garanzie a personaggi come Flavio Carboni. «Quella mattina uscii di casa – raccontò Rosone in una bolla d’ingenuità -, vidi di fronte un uomo che indossava un cappotto di cammello stupendo e quindi mi avvicinai per apprezzarlo meglio, ma lui si girò per spararmi». La pistola si inceppò, Abbruciati riuscì solo a gambizzare il povero ragioniere, prima di essere freddato da una misteriosa guardia giurata. Prima dell’attentato, Abbruciati era passato in via san Barnaba, dove tuttora ha sede l’Ordine equestre del santo Sepolcro di Gerusalemme. Il motivo è rimasto sconosciuto, ma è facile immaginare che non dovesse incontrare qualcuno per parlare della beneficenza che l’ordine storicamente compie.
Famoso al grande pubblico è invece Renatino De Pedis, detto “bambolotto” per eleganza e cura nell’abbigliamento, a capo del gruppo dei testaccini, morto incensurato, ammazzato in sella a un motorino dietro Campo dei Fiori nel 1990. Amico del rettore della basilica di sant’Apollinare, don Pietro Vergari, De Pedis venne sepolto nella cripta della stessa chiesa dov’era scomparsa Emanuela Orlandi, spalancando la porta delle indagini a una ridda di ipotesi rimaste tuttora purtroppo con il finale segnato da un punto interrogativo. «Gli omicidi di Abbruciati e De Pedis – prosegue Lupacchini – fanno parte delle cosiddette “morti con la coda”, ovvero malviventi della Magliana uccisi per motivi incongrui, malviventi che avevano a che fare tutti con i misteri del nostro paese a iniziare dal sequestro di Aldo Moro». Erano dei ricattatori? «Sicuramente quelli che non hanno collaborato con la giustizia -ipotizza Lupacchini -, soprattutto nel gruppo dei testaccini, sanno qualcosa che non hanno raccontato, ma chi cercava di operare ricatti è morto ammazzato».
Diversi per rimanere in vita o per crisi di coscienza, hanno invece scelto la strada della collaborazione, come lo stesso Accattone, come Fulvio Lucioli, detto er Sorcio che dava gli assalti ai treni o, per salire di livello, Abbatino, Fabiola Moretti, Vittorio Carnovale, detto er Coniglio, cognato di Toscano e amico del fondatore Selis. Tutti i pentiti si sono rifatti una vita, conducono un’esistenza normale senza riapparire nelle cronache criminali, né sono oggetto di indagini. Vivono sotto falsa identità, in località segrete lontane da Roma. C’è chi ha scritto qualche libro, chi vive di piccoli lavoretti. Ma anche qui emergono le eccezioni, a iniziare dalla stessa Moretti, 68 anni, ex compagna dell’Accattone, arrestata nell’estate del 2022 per nove anni di cumulo pene da scontare. Conosciuta al grande pubblico per aver ispirato il personaggio di Donatella Caviati in Romanzo Criminale, la zarina Moretti è accusata di gestire lo spaccio nella Scampia della capitale, a Roma sud. Con un gruppo di complici venivano organizzate le piazze. Ma della vecchia Magliana troviamo solo l’abitudine dei nomignoli, e allora nelle intercettazioni ambientali era tutto un Er Faina, Tonino, Testa lucida, Gianni l’albanese, Bestione, Chicco, Chicca, Celletto, Nefertari, Licco, Er Ciuppa.
Già nel 2019 la Cassazione aveva sbriciolato il mondo di mezzo di Massimo Carminati, detto Il Cecato, altro esponente di spicco della banda della Magliana, ex terrorista dei Nar, con collegamenti attivi nell’estrema destra, tratteggiato dalle investigazioni del procuratore Giuseppe Pignatone e da Michele Prestipino come associazione mafiosa. “Mafia capitale” non è mafia. Le ragnatele di Carminati tra affari minacce sub appalti e burocrazia doppiogiochista non rientrano nelle tipologie strutturate di cosa nostra, ’ndrangheta e camorra ma si tratta di sodalizi, banditismo.
Del resto, bisognava forse capire il contrappasso già dieci anni fa quando, in una tragicomica telefonata al call center di un operatore telefonico, innervosito per il ritardo nell’allacciamento, proprio l’ex boss sbottava, come un disgraziato qualunque: «Oh senti, ascolta a me, io mi chiamo Massimo Carminati, segnatelo sto’ nome, capito? Segnatelo: Carminati...Io sono quello che abita là, se mi venite a fare l’impianto bene, se non venite non me ne frega un c… di niente, hai capito? Massimo Carminati, segnatelo, così vai su internet e vedi chi sono io? Capito? Segnate sto’ nome, così sai che cazzo sono io! Se non mi attaccate il telefono entro domani, poi vengo a cercare te». Ai tempi d’oro Carminati non aveva certo bisogno di farsi riconoscere. Oggi è indicato tra i frequentatori del bar Pontisso a Roma, in zona Prati, cappuccio cornetto e due chiacchiere. Ma a far rimbalzare il cognome in questi giorni è soprattutto il figlio Andrea, assai attivo nella capitale e fino all’ottobre 2022 socio di Fabio Pileri, a sua volta legato a Tommaso Verdini.
È passato mezzo secolo, oggi «Roma è un unicum – prosegue Melillo, procuratore nazionale Antimafia – il territorio della città è gigantesco e spiega la co-presenza di modelli diversi con una concentrazione di rischi eterogenei. Senza dimenticare le piccole mafie: prima si nascondevano, oggi si mostrano, promuovono concerti di piazza, matrimoni, battesimi perché hanno bisogno di consenso sociale quartiere per quartiere».
Ma c’è di peggio, perché tutto questo avviene proprio nella capitale delle istituzioni, della politica e dovrebbe preoccupare ancor di più. «Le mafie si muovono con modelli, sistemi di relazioni e complessità...», chiosa Melillo. Ci sarebbe quindi da interrogarsi sull’allarme sociale che la situazione dovrebbe destare ma il procuratore nazionale la gira la questione all’opinione pubblica: «questa è una domanda che lascio ai lettori». Ma la risposta è sotto gli occhi di tutti.