Corriere della Sera, 22 gennaio 2024
Le responsabilità del Duce nella caccia ai rom
«Ginevra: visto che i Paesi dell’Europa del sud-est, come l’Ungheria, la Jugoslavia, la Cecoslovacchia e l’Austria sono continuamente infestati da tzigani che si distinguono specialmente per la loro attitudine al furto, questi Paesi hanno l’intenzione di presentare la mozione presso la Società delle Nazioni affinché questi nomadi non desiderabili siano stabilizzati su qualche isola di preferenza molto lontano nell’Oceano Pacifico». Era il 1933, XI anno dell’era fascista, e il rapporto della Divisione generale di Pubblica Sicurezza italiana spiegava che il progetto non era nuovo «essendo già stato presentato al tempo del fu Arciduca austriaco, Giuseppe» anche se in effetti c’erano difficoltà «poiché i tzigani sono difficili da identificare avendo l’abitudine di cambiare nazionalità più di una volta e si lasciano battezzare e ribattezzare se ciò porta loro qualche vantaggio. La mozione riguarderà non solo i tzigani dell’Europa orientale, ma bensì quelli della Spagna, dell’Africa del Nord e della Russia i quali danno molto filo da torcere ai loro governi».
Ne discussero davvero? Non si sa, risponde la storica e antropologa Paola Trevisan ne La persecuzione dei rom e dei sinti nell’Italia fascista. Storia, etnografia e memorie, edizioni Viella, in uscita per il Giorno della Memoria. Ma «il solo fatto d’essere stata formulata mostra quanto condivisa fosse, tra i governi europei, la determinazione a liberarsi degli “zingari” allontanandoli il più possibile dalle proprie frontiere». Resta tuttavia una curiosità: perché tra i Paesi «infestati» (compresa l’Africa del Nord!) non c’era l’Italia? Gli tzigani, come li chiama l’autore del rapporto, non davan «molto filo da torcere» anche ai prefetti italiani?
La contraddizione coi duri provvedimenti fascisti contro quello che oggi chiamiamo popolo romaní non era nuova. Nel 1909 Giovanni Giolitti, saputo che la Svizzera ipotizzava una conferenza internazionale sul tema, aveva liquidato la cosa in modo spiccio: «La questione degli zingari in Italia non esiste e dove occorre vi provvede la legge di Pubblica Sicurezza. Una conferenza internazionale non potrebbe per noi avere utilità, soprattutto ci potrebbe procurare dei danni». L’informativa dei suoi uffici, del resto, così diceva: «Si osserva che in Italia non abbiamo una classe di persone di nazionalità italiana che si possano considerare appartenenti alla categoria degli zingari veri e propri: vi sono è vero alcune centinaia di famiglie che per la professione che esercitano (saltimbanchi, girovaghi) menano vita randagia e nomade, ma costoro sono di nazionalità italiana e non possono considerarsi e trattarsi alla stregua degli zingari, di persone cioè delle quali si ignora l’appartenenza e la cittadinanza». Punto.
Certo è che quando alla fine del 1937, alla vigilia delle leggi razziali del ’38, il capo della polizia del Duce Arturo Bocchini chiese ai prefetti del Regno di «accertarsi e riferire numero zingari esistenti», ottenne «una cifra complessiva di circa 2.200 persone senza che venissero specificati i criteri presi in considerazione per il conteggio». Un numero, spiega Paola Trevisan in base a studi storici e etnografici «del tutto sottostimato». Meno di un decimo dei bohémien stimati nel 1895 in Francia. Per non dire delle larghe minoranze di rom e sinti nei Paesi dell’est europeo e soprattutto balcanici grazie a una certa tolleranza nell’era ottomana.
Del 1940 la circolare su rastrellamento e internamento di «zingari girovaghi»
Come mai così pochi se i primi «gitani» si erano affacciati dalle nostre parte da secoli, al punto di tirarsi addosso nei vari stati italici, secondo lo storico Leonardo Piasere autore di una decina di libri sul tema, almeno 210 bandi antizigani (79 «riconducibili allo Stato Pontificio») alcuni dei quali feroci come quello del 1558 della Repubblica di Venezia che prometteva 10 ducati a chi consegnasse uno zingaro e dava l’immunità a chi uccideva «li detti Cingani» così che «per tali homicidi non abbino ad incorrer in alcuna pena»? Perché tanto allarme per una minoranza così ridotta? Forse perché a differenza di altri popoli piombati a ondate con le «orde barbariche» loro arrivarono per secoli dalle Indie lontane, diciamo così, «alla spicciolata», in piccoli clan familiari, finendo poi per diluirsi tra la popolazione della penisola (a Melfi iniziarono a mandare i figli a scuola già nel 1905 quando gli analfabeti in Italia erano il 56%) al punto che molti medici, ingegneri, avvocati, professionisti e anche un famoso calciatore sono oggi d’origine sinta senza averne neppure la consapevolezza?
Può essere. Fatto sta che quando l’11 settembre 1940 «fu emanata la circolare che prevedeva il rastrellamento e poi l’internamento in località degli “zingari di cittadinanza italiana certa o presunta” che conducevano vita girovaga», basati sui peggiori stereotipi razzisti, furono fermate in tutto, secondo la Trevisan che come scrive in prefazione lo storico Michele Sarfatti ha il merito d’aver affrontato con una «ricostruzione accurata» il vuoto che c’era sulla responsabilità del fascismo nella caccia ai romaní, «solo» 878 persone. E il genocidio dei rom e dei sinti, che nel resto d’Europa fu una mattanza che spazzò via secondo gli storici mezzo milione di persone, inghiottì in Italia un numero ridotto di poveretti. Come le vittime della retata a Torre di Mosto, un paese vicino a San Donà di Piave, dove il 16 aprile 1944 furono catturati e avviati verso Auschwitz Roberto, Esterina e Concetta Calderas, Domenico Stoico, Dina Dori... Uomini, donne e bambini catalogati dalle SS come «girovaghi» dei quali non si è più saputo nulla.
Non hanno avuto, i romaní, un Primo Levi, un Elie Wiesel, una Liliana Segre che raccontasse il loro Baro Porrajmos, il «grande divoramento». E di quelle persecuzioni fasciste, ultime d’una secolare ostilità coltivata dalle sventurate teorie «scientifiche» di Cesare Lombroso, restano le suppliche disperate di quanti furono inviati al confino dal Duce senza neppure una macchia sulla fedina penale. Solo perché «zingari». Come quella di Anna Poropat, istriana condannata nel febbraio 1938 a cinque anni di confino a Posada, a una cinquantina di chilometri da Olbia, dopo un viaggio allora interminabile: «Vivo miseramente con l’indennità assegnatami quale confinata, ma non è possibile guadagnare un soldo diversamente, dico col lavoro, perché qui regna la disoccupazione...». Eppure, paradossalmente, proprio quelle deportazioni al confino, quasi sempre nei luoghi più isolati del profondo Mezzogiorno via via occupati dagli Alleati, avrebbero salvato lei, il figlioletto e altri dai successivi rastrellamenti nazisti e repubblichini. Purché, si capisce, ciò non ascritto a «merito» della Repubblica di Salò...