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 2024  gennaio 22 Lunedì calendario

Intervista a Saverio Costanzo


Saverio Costanzo, il suo ultimo film, «Finalmente l’alba», è dedicato a suo padre.
«Se ne sono stupiti in molti, e mi sono interrogato sul motivo. Un padre se ne è andato, un figlio gli dedica il suo film: è normale, no? Forse dipende dal fatto che io di mio padre non ho mai parlato. Non ho quasi foto con lui».
Perché?
«Per timidezza. Per riservatezza. Non solo non volevo usare il suo nome; non volevo socializzarmi come il figlio di Maurizio Costanzo. Non intendevo apparire come quello seduto su una fortuna, su un privilegio. Alla fine il privilegio c’è comunque; ma io non lo sapevo».
I n che senso? 
«Da ragazzo facevo una vita normale. Stavo in una casa di novanta metri quadrati, con mia mamma e mia sorella. Solo a 14 anni ho realizzato che mio padre era ricco». 
Qual è il primo ricordo che ha di lui? 
«Lo rivedo nella sua camera da letto, affacciata su una chiostrina, con una coperta anni 70, una trapunta bianca con i quadrati neri. Papà non ha mai dormito con mamma, come non credo abbia mai dormito con nessuna delle sue mogli. Stavamo in centro, in via dei Banchi Nuovi, al secondo piano. Ma lui se ne è andato di casa molto presto, quasi subito». 
Com’erano i vostri rapporti? 
«Volevo molto bene a papà. Ma avevo una madre forte e molto presente, che non ci ha mai fatto sentire la sua mancanza. Poi certo abbiamo avuto i nostri conflitti, come sempre tra il padre e il figlio maschio. Devo molto a Maria. Fu lei a riavvicinarci». 
Maria De Filippi? 
«Andavano da Mességué perché lui doveva sempre dimagrire. Una volta Maria gli disse: portiamo anche tuo figlio. Allora avevo tredici anni, ed ero pure io un po’ grassoccio… Lui all’inizio non voleva: “ma no, che palle!”. Finì che ci divertimmo tantissimo, sembravamo Sordi e Verdone nel film “In viaggio con papà”. Ci era toccata la camera insieme, un incubo. Se mi svegliavo (affamato) nel cuore della notte russava talmente che non riuscivo più a prendere sonno. All’inizio mi pareva uno sconosciuto. Poi mi resi conto che papà era un uomo di un umorismo straordinario. E così, complice una certa sorniona ironia tipica dei romani che condividiamo, ci siamo ammazzati dalle risate». 
E lei? 
«Io ero un po’ stronzo: quando ho cominciato a fare il regista, non volevo che parlasse di me. Ed ero anche un po’ snob. Lui no. Lui era un uomo di tv; e un uomo di tv è di tutti». 
Da Bontà loro al Costanzo Show. 
«Gli ospiti erano terrorizzati. Tutti, nessuno escluso. Quel palcoscenico era come un esame». 
Dopo la laurea lei partì per l’America. 
«E girai un documentario a Brooklyn, sugli italoamericani del Caffè Mille Luci. C’erano il sedicente avvocato, l’idraulico, l’autista di scuolabus, Alfonso, che mi ammoniva di non andare mai a Manhattan, “perché so’ tutti froci”. Un giorno venne Anthony Genovese, il mafioso, che mi consentì di continuare a girare, a patto di non riprenderlo mai. Ero diventato uno di loro, fino a quando non fui scoperto». 
Come accadde? 
«Come avventori del bar fummo invitati a Rai International a vedere la partita della Roma, tutti con la sciarpa giallorossa, come pubblico della trasmissione che conduceva Ilaria D’Amico, che per gli italiani all’estero era come la Carrà. La conoscevo e così le chiesi di far finta di nulla, ma lei non si trattenne: “Ciao Saverio!”. Così scoprirono chi ero, e chi era mio padre. E si ruppe il rapporto di fiducia. Non ero più uno di loro». 
Poi a New York venne anche lui, Maurizio Costanzo. 
«Nel 2002, con Mentana, a fare una trasmissione sull’11 settembre per Canale 5. Anche lì ci divertimmo. A un certo punto qualcuno propose: mandiamo Saverio a girare questi contributi. Ma mio padre non rispose né sì né no. Come a dire: non te la regalo la fiducia. E io pensai: ah sì? Neanch’io la regalo a te». 
Due anni dopo lei vinse il festival di Locarno con la sua opera prima, Private. Un film quasi profetico: la storia di una famiglia di Gaza, costretta a convivere con i soldati israeliani che occupano la sua casa. 
«Papà commentò: “È come se il proprietario di un teatrino di rivista scoprisse che suo figlio è Ibsen”». 
E per lei suo padre chi era? 
«Una figura controversa. Non mi aprivo, non gli mostravo il mio dolore. Di consigli ne ho chiesti più a De André o a De Gregori, i cantautori che ascoltavo. I detrattori lo additavano come un uomo di potere, come un navigatore amico di tutti, di Berlusconi e di D’Alema e anche a me spesso il suo lato pubblico risultava inautentico. Ma poi nel tempo ho scoperto che non faceva calcoli, semplicemente si muoveva come se dovesse dare davvero tutto a tutti. Gli chiedevo: ma perché fai un sacco di lavori, pure la tv di San Marino? E lui rispondeva: perché non riesco a dire di no, per rispetto del lavoro che oggi c’è ma domani? In realtà, vede, era autenticamente umile. E su tante cose aveva ragione lui. Alcune le ho scoperte solo dopo la sua morte». 
Quali? 
«Papà aiutava in segreto molte persone, gente comune e colleghi dello spettacolo, no, non le dirò i nomi. Lei non ha idea di quante persone mi abbiano detto: tuo padre mi ha dato il consiglio giusto, tuo padre mi ha risolto un problema, tuo padre mi ha salvato la vita...». 
Come spiega l’infortunio della P2? 
«Con lo spirito dei tempi. In tanti cercavano una rete, una protezione. Ma mio padre, a mio parere almeno, è stato solo ingenuo. Non riesco proprio ad immaginarlo lì a tessere trame, intrighi. All’inizio provò a negare di essere stato iscritto. Poi chiamò Pansa e gli rivelò tutto. Fu uno dei pochi a farlo. Se ne vergognava moltissimo, si nascose come un reietto. Dovette ricominciare da capo». 
Com’erano i rapporti tra i suoi genitori? 
«Sono sempre rimasti buoni. Fu mamma a indicare a papà un giovane e brillante critico d’arte, che avrebbe potuto fare bene in televisione. Era Vittorio Sgarbi». 
Lei ha portato al cinema e in tv i due romanzi italiani di maggior successo degli ultimi quindici anni, La solitudine dei numeri primi e L’amica geniale. 
«Il libro di Paolo Giordano ha venduto due milioni di copie; eppure non ho fatto il film che i lettori si aspettavano e volevano. C’era un combattimento dentro di me, un braccio di ferro tra “la nicchia” e lo spirito nazionalpopolare che invece mio padre incarnava senza complessi. Solo con il tempo ho fatto pace con questa cosa». 
Sul set lei incontrò la sua compagna, Alba Rohrwacher. 
«E pensare che detestavo la campagna, il miele, lo dicevo proprio: che noia questa storia della Rohrwacher, la campagna, il miele. E poi invece non solo ho imparato ad amare la campagna e il miele, ma soprattutto lei». 
Ed Elena Ferrante, o come si chiama davvero, l’ha mai incontrata? 
«No. È rimasta un fantasma. Ho un pacco alto così di mail che ci siamo scambiati. È stata lei a scegliermi come regista per la serie tratta dai suoi romanzi». 
Perché? 
«Non lo so. Forse perché per me l’autorità è femmina. Ho imparato moltissimo dalla cultura femminista. Sono cresciuto in un ambiente matriarcale, dove quello sbagliato, in quanto maschio, ero io». 
Anche nel suo nuovo film, «Finalmente l’alba», la protagonista è una giovane donna, Mimosa. Si ritrova nello stesso ambiente costato la vita a una coetanea con il sogno del cinema, Wilma Montesi, ma ne esce viva e più forte. 
«Il caso Montesi fu la perdita dell’innocenza dell’Italia del dopoguerra. Per me è anche una suggestione felliniana: la ragazza che Mastroianni incontra sulla spiaggia di Fregene nella Dolce Vita è Wilma. Lei è già morta, infatti grida e lui risponde: non ti sento. Da allora molto è cambiato, ma l’Italia è ancora un Paese misogino. Il film è un invito al coraggio. Anche al coraggio di ritrovare la parte femminile che è in ognuno di noi». 
Nel film Alida Valli è Alba Rohrwacher, mentre la diva americana è interpretata da Lily James: seducente ma fredda. 
«Le dive degli anni 50 erano costrette – per essere libere, per avere potere – a sedurre, a compiacere sempre le aspettative del maschio. Era il loro ruolo. L’archetipo è Marilyn Monroe. Un’altra che, come Wilma Montesi, non si è salvata». 
Maurizio Costanzo credeva nell’aldilà, era convinto che a salvarlo dalla bomba di mafia fosse stato suo padre. Anche lei crede a una vita dopo la morte? 
«Ho paura a dirlo, ma ci credo. Non è una convinzione, è una speranza». 
Com’era suo nonno paterno? 
«Si chiamava Ugo, era un tipo molto simpatico: anticlericale, la madre volle che papà diventasse scout, e lui gli faceva trovare biglietti con la scritta: “Prete!”. Mio padre era legatissimo a lui, più ancora che a sua mamma, che pure gli aveva trasmesso la passione per il teatro e per l’arte. Rimpiangeva di averlo perso così presto. Una volta mi disse: “Ogni sera, prima di entrare in scena, penso al mio papà”». 
Come avete detto addio a Maurizio Costanzo? 
«C’eravamo tutti: Maria, mia sorella Camilla e mio fratello Gabriele. Sono stato fortunato: non avevo film da girare, ho potuto stargli accanto sino alla fine, e sono orgoglioso di questo. Papà è sempre rimasto lucido. Era stato molto male già nel 2013, ma all’epoca dovevo lavorare, avevo interrotto una produzione che doveva ricominciare. Lui mi disse: non partire, resta qui con me. Gli risposi: tu cosa faresti al posto mio?». 
Come finì? 
«Ancora una volta fu Maria a risolvere: “Vai pure Saverio, tuo padre è troppo intelligente per morire adesso”». 
Cosa ricorda del funerale? 
«La lettera meravigliosa che lesse mia sorella. Camilla immaginava che papà fosse lì e dicesse: “Ma ve rendete conto? Pe’ me, tutto ’sto casino?”». 
Farebbe un film su di lui? 
«Il copione c’è, il titolo pure: Show. Ma manca l’interprete. Ci vorrebbe un attore dalla grande ironia sorniona. Forse solo un Tognazzi potrebbe riportarlo in vita». 
Mi racconta ancora un episodio di vita con lui? 
«Avevo quattordici anni, c’era già stata la gita da Mességué. Papà mi telefona e mi chiede: “Ce l’hai una giacca? No? Compratela. Passo a prenderti tra due giorni”. Prendemmo l’aereo privato che per quel tratto divideva con Valentino, lo stilista». 
C’era anche Valentino? 
«No, c’erano i suoi tre carlini, con il domestico filippino. Arrivammo a Milano e andammo ad Arcore da Berlusconi. Fu gentilissimo, mi portò in giro per un’ora a vedere la villa, mi riempì di gagliardetti del Milan: era il 1989, l’anno della sua prima Champions. Poi ci mettemmo a tavola, Berlusconi indossava una tuta di velluto. Papà era insolitamente teso. A un tratto un omone con i pantaloni alla zuava e la piccozza bussò alla vetrata: era Craxi con sua moglie Anna, reduce da una passeggiata nel parco di Arcore». 
Pare un film del suo amico Sorrentino. 
«Invece è vero. Craxi dice a mio padre: “Le devo chiedere aiuto per un grande progetto, riguarda le donne socialiste”. Mio padre risponde con ossequio, io lo guardo con stupore e lui in imbarazzo mi rivolge uno sguardo d’intesa, come a dire: ne parliamo dopo. Prosegue la visita ad Arcore, compresa la famosa necropoli privata. Il giorno stesso ritorniamo a Roma. Al momento di salutarci, mio padre indugia un attimo, poi mi dice: “Comunque, quella cosa per Craxi, io non la farò mai”. Io gli sorrido: 
“Ciao papà”. 
“Ciao Save’”».