il Fatto Quotidiano, 21 gennaio 2024
Intervista a Bruno Gambarotta
“Quando ero ragazzo, ancora prima della televisione, nel vocabolario comune esisteva una frase chiave, decisiva in ogni discussione: “Lo ha detto la radio”; (pausa) avevo 12 anni, era il 4 maggio del 1949, una cliente entra nel negozio da parrucchiera di mia madre: ‘Il Torino è morto (la strage di Superga)’. ‘Cosa?’ ‘Lo ha detto la radio…’. Allora era certamente vero. Poi all’inizio, con la tv, quella fiducia è cresciuta”. Bruno Gambarotta è quel signore elegante, rassicurante, a volte dotato di un distacco da umarell delle trasmissioni televisive, diventato pubblico prima grazie ad Adriano Celentano e a Fantastico e poi con Fabio Fazio e a Quelli che il calcio…; invece lui ha visto, vissuto, codificato, partecipato, a volte subito alcuni dei più grandi successi della Rai quando ancora il bianco e nero dettava la quotidianità degli italiani; quando la Rai era la Cassazione delle nostre idee e letterati come Raffaele La Capria e Andrea Camilleri erano semplici compagni di scrivania dentro a una stanza di viale Mazzini.
Tutto questo Gambarotta l’ha scritto in un bel libro, Fuori programma, edito da Manni.
Veramente altri tempi.
Francesco Alberoni aveva teorizzato “lo stato nascente”, la meraviglia di prendere parte a un’avventura comune.
In Rai si era al centro del mondo.
No, padrone del mondo; se andavamo a Chivasso per Lascia o raddoppia, e avevamo bisogno di un’antenna, ci bastava citofonare a qualunque condominio, presentarci come “Rai” e ci aprivano le porte del terrazzo per installare i mezzi; poi ci offrivano il caffè, la cena, o aiuti pratici. Nessuno ci chiedeva e controllava i documenti.
Mai…
Potevamo bloccare il traffico, far passare i cavi, spostare i segnali.
Nel libro traspare il divertimento.
Ho avuto un gran culo.
È stato bravo a perseguire il “culo”.
E non ho mai voluto viaggiare sul ponte di comando, ma nella sala macchine: mi piaceva comporre il “puzzle” di una trasmissione, per questo negli anni 80 mi chiamarono a Roma da Torino: “Abbiamo bisogno di te per governare Celentano”. Lo avevano scelto per condurre Fantastico (1987).
Ci ha provato…
Ho passato con lui tutta l’estate: non è bastata per spiegargli il gioco del caffè.
Cioè?
Il munifico sponsor della trasmissione era la Procter & Gamble, proprietari del caffè Splendid. Alle ore 23 della prima puntata era il momento del gioco e Adriano doveva specificare le regole, ma non ricordava le diverse qualità del marchio: “Ce ne sono tre tipi diversi… (pausa) Uno, sono sicuro, è lo Splendid… (pausa) Gli altri quelli che volete voi… (pausa) Non so, per esempio (pausa) Lavazza…”
La concorrenza.
Mi giro verso la manager della Procter & Gamble e lei fa il gesto di impugnare e strappare i fogli del contratto; a partire dalla seconda puntata Adriano mi volle al suo fianco per affrontare il regolamento.
I riflettori su di lei.
La dirigenza era nel panico, a loro andava bene qualunque soluzione, l’importante era non perdere lo sponsor.
Milioni di spettatori.
Invece sognavo un ruolo da sherpa; uno dei miei direttori è stato Vittorio Bonicelli, grande sceneggiatore, ma perdeva tutto; ogni volta si girava verso di me come a chiedere aiuto, e io gli consegnavo i documenti in ordine. A quel punto, i grandi capi, per prenderlo per il culo mi lodavano. Lui replicava: “Sì, Gambarotta supplisce con la diligenza”.
Con Fantastico è diventato pubblico.
Secondo un monitoraggio commissionato dalle agenzie pubblicitarie ero tra i cento personaggi riconosciuti. Il primo in classifica era Baudo.
E lei…
Messo bene, però quelli dell’agenzia aggiunsero: “Non ti prenderanno: il cinquanta per cento degli intervistati ti ama, l’altro 50 ti detesta”.
Addirittura.
Forse traspariva l’immagine di uno che legge molto; mi capita frequentemente di citare, di offrire riferimenti, e magari chi non lo apprezza si sente tagliato fuori.
Quali erano le regole fondamentali per sopravvivere in Rai?
Diventare anguille, non prendere posizioni nette. Non dimostrare forte personalità e un po’ di leccaculismo.
Tipo?
Negli anni di Bernabei era forte la presenza della censura e l’ufficio era al 7° piano, vicino al direttore generale, con sulla porta l’etichetta “segreteria tecnica”.
Super impegnati.
Non tanto, sapevamo cosa era fondamentale evitare.
Cosa?
Storie di omosessualità o l’elogio della vita di coppia senza sacramenti; ma dipendeva molto dal palinsesto e dall’abilità di Bernabei.
Esempio.
Quelli erano anni di dittatura, magari in Sudamerica, e molti registi si rifugiavano a Roma; grazie a un forte movimento di opinione, che chiedeva di farli lavorare, sette di loro vennero impiegati in un film Rai. Il problema era mandarlo in onda.
Soluzione?
Sull’altra rete gli contrapposero una programmazione fortissima, quindi passò liscio; il palinsesto è sempre stato nelle mani giuste.
Come con Bontà loro di Costanzo.
Non lo volevano, non era previsto, e poi non era stato deciso dall’alto ma solo da Angelo Guglielmi. Era derubricato a stronzata, piazzato in una fascia perdente; con quel programma è nato il talk show, con il confronto tra persone differenti. Bravissimo Costanzo. Attento…
A cosa, in particolare?
Un apparecchio serviva a capire immediatamente il gradimento del pubblico, a monitorarlo c’era Alberto Silvestri (papà del cantautore Daniele). Se uno degli ospiti non funzionava e calava l’ascolto, Alberto dava cenno a Maurizio che gli toglieva la parola.
Altre qualità di Costanzo?
Era onnivoro e soprattutto sapeva curare le relazioni. E le relazioni sono tutto…
“I programmi nascevano a cena”, parole sue.
Da sempre mi batto contro lo stereotipo “a Roma non si lavora”. A Roma si lavora tantissimo, ma non con i sistemi istituzionali; a Torino per decidere un programma si organizzava una riunione, ci si sedeva intorno a un tavolo, ognuno con i suoi appunti; a Roma avveniva nelle case, nelle osterie, al bar. Poi amavo assistere alla cooptazione.
Tradotto.
Se a Ennio Morricone proponevano un lavoro, e lui era impegnato, non rispondeva “no”, coinvolgeva un amico.
La tavola era la chiave.
Pure i funerali: Pippo Baudo non ne ha mai mancato uno e quando arriva davanti alla chiesa si guarda attorno per cercare le telecamere.
C’è l’assioma: Baudo è un grande professionista…
Preparatissimo, memoria straordinaria; per lui sono stato cameraman in Settevoci (1966); vent’anni dopo ci siamo rivisti e ricordava il nome di ogni tecnico, segretario, lavoratore della trasmissione. È un animale televisivo.
Esiste un volto davanti alla tv e un altro dietro?
In Rai molti temevano Renato Rascel, giudicato cattivissimo, feroce; (sorride) per un anno ho vissuto con Alberto Lionello, personaggio straordinario, ma di un’avarizia rara, talmente rara da rendersene conto da solo; (ride) raccontava di essere stato concupito da Wanda Osiris.
In Rai qualche scandalo rispetto alle donne c’è stato.
Già negli anni 60 giravano voci e qualche intervento…
Tipo?
C’era una presentatrice molto cara a Giovanni Gronchi; poi su un vice direttore la frase ricorrente era “ha scoperto la figa a quarant’anni”. Ed era impegnato nei corsi di recupero; però non c’erano situazioni esagerate.
Sempre nel libro racconta di Carmelo Bene.
Ho prodotto il suo Otello, una fatica boia racchiusa in quaranta ore di girato mai montato; dopo la morte ci ha pensato la sua aiuto-regista.
Mentre Bene...
Andava sempre in crisi, delle crisi gravi e reali, una sofferenza terribile: dalle due del pomeriggio si sedeva al bar della Rai e beveva di tutto e per delle ore, pur di allontanare il momento del ciak. E poi trattava male gli attori e bene i tecnici.
Quanto male?
Uno dei suoi attori doveva girare una scena da sudato: ogni volta gli rifiutava il trucco e lo obbligava a correre intorno allo studio, fino a quando stremato poteva tornare sul set. L’attore zitto.
La celebre fragilità dell’artista.
Una volta ero a Londra per girare un giallo, protagonisti Alberto Lupo e Roberto Herlitzka (Un certo Harry Brent); quando andavamo al ristorante c’era la fila di italiani per ottenere un autografo da Lupo; di nascosto andavo in fondo alla fila stessa e chiedevo il favore di domandarlo pure a Roberto, altrimenti ci sarebbe rimasto male.
Un artista fragile?
Giancarlo Sbragia era abituato al teatro, non si trovava bene nelle dinamiche televisive.
E poi?
Credo anche Adriano Celentano: non era in grado di ascoltare nessuno, aveva paura che gli si confondessero le idee; (sorride) sempre in quell’estate prima di Fantastico studiavamo le scalette, ipotizzavamo ospiti. Lui ascoltava. Interveniva. Poi buttava via: “Non voglio essere ingabbiato”.
Si è trovato bene…
Pensare che Adriano, quando è fuori da contesti pubblici, è in grado di raccontare delle storie stupende, con i tempi giusti, senza pause, i toni divertenti; più volte gli ho chiesto di realizzare un programma su quelle storie. Impossibile.
All’inizio ha parlato di leccaculismo.
Quando in Rai hanno scoperto che la mattina presto Bernabei andava in chiesa, in tanti hanno iniziato a farsi trovare lì; fino a quando Bernabei ha preferito cambiare luogo di preghiera.
Il suo vicino di scrivania era Raffaele La Capria.
Uomo straordinario; (cambia tono) ho sempre avuto con me qualcosa da leggere, così quando arrivava in ufficio controllava il mio libro del giorno; se conosceva l’autore lo chiamava subito e me lo passava.
Altro vicino: Andrea Camilleri.
Aveva una capacità incredibile di raccontare storie e il suo è stato un successo tardivo, ma meritato; dopo il boom, ogni tanto c’era Raffaele (La Capria) che mi guardava stupito: “Hai visto Andrea!”.
Si è mai sentito inadeguato di fronte a qualcuno?
A Fellini, testa rara; per lavorare in Rai pose una condizione: “Inventate qualcosa per Giulietta, toglietemela dalle palle”. Quel “qualcosa” divenne Eleonora e fu un successo; dai casi sono nate situazioni imprevedibili.
A quale “caso” pensa?
A quando giravo il programma Viaggio in seconda classe di Nanni Loy (delle candid camera in treno): beccammo un ragazzo zoppo che vendeva il caffè; ci fermammo un’ora con lui, gli offrimmo da mangiare, Nanny registrò tutto. Da lì, anni dopo, Nanni ha creato Café Express con Manfredi.
Descrive Loy come una persona unica.
Integro; in quel periodo la Fiat cedette il 10 per cento della azioni a Gheddafi; quindi Nanni prese un attore, lo vestì da arabo e lo mandò sul treno: a tutti i passeggeri spiegava che era un italiano cattolico, convertito per il nuovo corso. Rispondevano “bravo”, “capiamo”. Tornati a Roma il direttore ci impose di trovare qualcuno che lo contestasse: “Siamo Rai, siamo cattolici!”. Nanni si rifiutò di truffare gli spettatori: la puntata non è mai andata in onda.
È stato coinvolto nel celeberrimo Non stop.
Da La Smorfia a Verdone: un cast irripetibile; (sorride) Verdone andava estratto dal camerino, non voleva uscire, gli veniva il panico.
Infine Fabio Fazio.
Quando propose Quelli che il calcio… c’è chi gridò allo scandalo, al sicuro fallimento. Aveva ragione, aveva capito da che parte andava la tv.
Lei presente in quota tifoso del Torino.
Ancora oggi mi fermano e mi commentano le partite o per strada mi chiedono: “Bruno, ce la facciamo?”. Rispondo sempre “sì”. In realtà non so nulla, ho smesso di tifare con Superga.
Lei chi è?
Uno pauroso, ligio al potere, non ho mai rischiato nulla, sempre con il posto fisso. Sono un cittadino, pago le tasse e sono sposato da 57 anni.