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 2024  gennaio 21 Domenica calendario

Lenin. Un romanzo russo


Mentre tutto stava finendo, con la bara di Lenin che entrava nella penombra eterna del mausoleo e la musica dell’ Internazionale che lottava coi 37 gradi sottozero della Piazza Rossa, Nadezda Krupskaja probabilmente ripensò al proiettile da cui tutto era incominciato, cinque anni e mezzo prima. Lei e Lenin avevano ripercorso la scena decine di volte per cercare il bivio supremo, al confine tra la vita e la morte in quel venerdì 30 agosto 1918. Il governo bolscevico aveva appena un anno, il suo Capo era uscito dal Cremlino nel pomeriggio per tre comizi nelle fabbriche, bisognava rassicurare e indirizzare gli operai, troppi gridavano già alla rivoluzione tradita.
Lenin aveva appena finito di parlare nel cortile metalmeccanico della Michelson, tra gli sbuffi di fumo dei forni che si stavano spegnendo. Gruppi di operai lo fermavano con le ultime domande, mentre cercava la macchina con lo sguardo: quando vide la Rolls Royce nera muoversi vicino alla rimessa, le andò incontro. Due donne lo chiamarono ancora, quasi correndo verso di lui, pallide per l’emozione. Vladimir Ilic era a un passo dall’auto ma si voltò e fece in tempo a vedere la pistola nella mano destra di Fanja Kaplan, socialista rivoluzionaria che aveva già scontato dieci anni di prigione per un attentato contro un funzionario zarista. Tre spari, uno va a vuoto, una pallottola colpisce Lenin alla spalla sinistra e quel terzo proiettile perfora il polmone, risale, arrivando quasi fino al collo.
Lo trasportano di corsa al Cremlino sulla sua auto, temono altri assalti, una manovra organizzata. Fanja, chiamata anche Dora, verrà condannata a morte in soli quattro giorni e subito giustiziata con un colpo alla nuca, come se la rivoluzione avesse fretta di chiudere la ferita. Ma proprio quel suo proiettile, con incisa una croce intinta nel curaro, verrà infine estratto quattro anni dopo all’ospedale militare di Mosca, perché secondo il professor Felix Klemperer rilasciava piombo nella carne di Lenin ed era quindi la vera causa del malessere, della stanchezza improvvisa, del nervosismo e dei mal di testa continui del Capo bolscevico, minando per sempre il suo vigore fisico. In realtà, la moglie di Lenin sapeva che quella pallottola aveva agito più nel profondo, violando per la prima volta il corpo carismatico del leader sovietico e insieme il corpo mistico del comunismo rivoluzionario,intangibile nella sua disputa perenne con il tempo, per la pretesa ideologica dell’eternità.
Da quel momento la Russia e il mondo avevano assistito a due movimenti contrapposti al vertice dell’esperimento sociale e politico che da San Pietroburgo annunciava la rivoluzione proletaria mondiale per incendiare gli imperi decadenti, com’era successo allo Zar Nikolaj II, detronizzato dopo tre secoli di regno della dinastia Romanov sulle Russie. Da un lato la rivoluzione bolscevica si consolidava abbattendo tutti gli ostacoli, abolendo la Costituente, cancellando i partiti, fucilando a Ekaterinburg l’intera famiglia Romanov per rendere impossibile ogni ritorno al passato, annientandolo. Dall’altro lato, la salute di Vladimir Ilic Lenin s’indeboliva ogni giorno di più trasmettendo l’immagine di un potere incerto e instabile, improvvisamente precario, con l’incognita di una possibile successione e l’evidenza di un gruppo dirigente che stava preparandosi a portare la lotta dai campi di battaglia alle stanze del Cremlino, rendendo misterioso e minaccioso il futuro.
Ma adesso la folla piangeva sulla Piazza Rossa coi berretti calati sulle orecchie, bianchi di un nevischio gelato che si fermava sulle sopracciglia e sui baffi, cresceva sui giacconi. Un milione di persone, molti venuti da lontano appena si era diffusa la conferma che era successo davvero: Lenin è morto. Da lontano tutti fissavano il pallore della salma nella bara sulla piattaforma e poi con lo sguardo cercavano lei, Nadezda Kostantinovna Krupskaja, la moglie di Lenin che ora diventava la vedova, dopo essere stata sempre al suo fianco: da quando Ilic aspettava la fine delle sue lezioni nei circoli operai e poi attraversava con lei la domenica accompagnandola a casa nel Vecchio Nevskij, ai tre anni di confino in Siberia, dove si erano sposati in chiesa chiedendo al fabbro di Susenskoe di ricavare due anelli da una moneta di rame da cinque copechi. Quindi alla lunga stagione dell’esilio.
La figura appartata di Nadezda, coi capelli raccolti in fretta sulla nuca, non riusciva a contenere tutto il lutto, come testimoniava quella moltitudine mai vista di uomini e donne che avevano sfilato per giorni nella Sala delle Colonne, nel vecchio Circolo dei Nobili, senza potersi fermare, solo il tempo di un omaggio, un commiato, uno sguardo, in una coda sterminata che paralizzava la città. Poi, sulla piazza dove comincia la Russia, avevano atteso fin dall’alba l’arrivo delle spoglie di Lenin portate a braccia da Stalin, Zinoviev, Kalinin e Kamenev, finché la bara fu issata in alto, davanti al vertice politico e al popolo. Adesso, secondo le intenzioni del Politbjuro che aveva deciso ogni cosa, il corpo simbolo della rivoluzione attraversava la soglia dell’eternità, e per la sua custodia era stato costruito il mausoleo di legno in cui Lenin veniva trasportato al suono della marcia funebre di Chopin, quando l’orologio sulla torre Spasskaja batteva le quattro del pomeriggio.
Cent’anni fa moriva il leader della Rivoluzione del ’17 Ogni mese Ezio Mauro ripercorrerà la storia politica e umana dell’uomo che ha travolto il Novecento. A partire da questa prima scena: un proiettile e la folla incredula

Era l’ora in cui a San Pietroburgo (che da appena un giorno aveva cambiato nome in Leningrado) si accendevano tutti insieme 53 fuochi, come gli anni di Lenin, moltiplicando in quel tramonto di neve lo scintillio perpetuo della fiamma che ricorda i primi caduti della Rivoluzione.
Nell’incertezza del futuro, il presente si avvinghiava alla memoria, cercando di proteggere l’incedere della “Grande Epoca” chiamata in scena con l’obbligo di durare per sempre, ma in realtà ancora giovane, esposta e insicura, appena agli inizi. Colpi di coda contro-rivoluzionari, ribellioni nazionalistiche, attentati estremistici, rivolte contadine nelle “terre nere” e nel Volga, insurrezione proletaria per “un soviet senza comunisti” a Kronstadt, stroncata nel sangue dalla repressione bolscevica: quasi a testare la tenuta del nuovo potere sovietico che era penetrato come in una casa fantasma nella Sala di Malachite del Palazzo d’Inverno alle 2,10 di notte del 7 ottobre 1917, dichiarando decaduto il governo e arrestando i suoi ministri seduti al lume di candela, senza resistenza e con il premier Kerenskij in fuga.
Con una fede quasi fanatica in se stesso e nel destino della rivoluzione proletaria, Lenin teneva insieme tutto, compensava oggi con ieri, aggiornava la teoria alla prassi rivoluzionaria, sminuiva le contraddizioni comeinevitabili e passeggere, e col massacro dei cosacchi nel ’19 inaugurava il primo “terrore” bolscevico, che poi Stalin avrebbe ingigantito in ossessione patologica per la distruzione sanguinaria di ogni dissenso, anche semplicemente sospetto.
A chi, come Maksim Gorkij, gli chiedeva conto della “crudeltà” dei rivoluzionari, Lenin obiettava irritato: «Ma che volete? Si può forse essere umani in una lotta così feroce? Dove può trovare posto qui la bontà d’animo e la generosità? Da ogni parte la contro-rivoluzione ci assalta come un orso: non abbiamo forse il diritto di lottare e resistere? Scusate, ma non siamo imbecilli. Sappiamo quel che vogliamo e soprattutto abbiamo capito che non può farlo nessun altro per noi. Altrimenti, pensate che io sarei rimasto qui?» Poi una pausa, come se dovesse concludere un rendiconto, e quindi rassicurare se stesso: «La nostra generazione è riuscita a compiere un lavoro meraviglioso per la sua portata storica. Ci siamo assunti il compito gigantesco di far alzare in piedi il popolo. La crudeltà della nostra vita verrà compresa e giustificata. Tutto sarà capito, tutto ».
Ma adesso ciò che restava di Lenin giaceva ricomposto nel silenzio protetto dalla guardia d’onore, dentro il mausoleo vuoto, portando con sé quel centro di gravità dove sembrava essere custodita la mappa segreta della rivoluzione con la sua rotta misteriosa e il sigillo di garanzia. Lui non aveva addosso i segni dell’eccezione, per i predestinati: aveva aspettato sei giorni dalla nascita per essere battezzato nella chiesa ortodossadi San Nicola a Simbirsk, sul Volga, aveva passato un’estate a studiare a memoria le poesie di Nekrasov per sfidare Anna, la sorella, nell’infanzia aveva speso due giorni ogni settimana a parlare solo francese e tedesco per imparare le lingue direttamente dalla madre, e a 17 anni era riuscito a farsi espellere dall’università di Kazan a causa di una “assemblea sediziosa” per poi laurearsi in legge a San Pietroburgo ed entrare in carcere per la prima volta alla fine del 1895, arrestato dalla polizia zarista con l’accusa di propaganda marxista. L’impronta rivoluzionaria per Vladimir Ilic arrivò indelebile l’11 maggio 1887 dall’impiccagione del fratello maggiore Alexandr, condannato a morte con cinque compagni del movimento “Narodnaja Volja”, Libertà del Popolo, per aver progettato un attentato allo Zar.
Entrando a Palazzo d’Inverno nell’ottobre del ’17, e poi un anno dopo al Cremlino nelle stanze imperiali, Lenin riscattava il destino funesto di Alexandr e l’umiliazione della madre Marija Alexandrovna che a San Pietroburgo rivolse invano all’imperatore la sua
la supplica di suddito implorante per la grazia alfiglio, ricordando anche la fedeltà di servizio del marito Ilja Nikolaevic, ispettore generale all’istruzione e consigliere di Stato. Ma soprattutto ribaltava insieme con il destino della Russia anche il corso della sua stessa esistenza, rovesciando nella conquista del potere la solitudine, l’impotenza e le ristrettezze di vent’anni di esilio tra Vienna, Monaco, Londra, Parigi, Cracovia, Berna, Ginevra e Zurigo. Una vita al minimo, comprando e vendendo i mobili ad ogni trasferimento per 12 marchi, affittando una stanza dalla signora Pelog in una pensione da bassifondi svizzeri dove si pranzava con una prostituta, un’infermiera e un delinquente; o ancora rifiutando il medico nell’aprile 1903 quando il fuoco sacro infiammò i nervi del petto e della schiena di Ilic facendolo delirare, ma la visita costava una ghinea; e comunque sopportando lo sguardo di commiserazione della portinaia francese, quando a Parigi vide nel trasloco i bagagli e gli arredi della famiglia Uljanov.
In compenso a Cracovia Ilic e Nadezda potevano pattinare lungo la foresta che si risvegliava in primavera, rigogliosa, in Svizzera trovarono a Natale una casa di riposo sommersa nella neve nel cantone San Gallo per 2 franchi e 50 a testa al giorno pasti compresi, più la colazione con pane, burro, formaggio e caffellatte, ma senza zucchero. A Zurigo dovevano tenere le finestre sempre chiuse per la puzza che saliva da un laboratorio di salumi, ma in Francia facevano lunghe corse in bici, finché qualcuno non rubò quella di Ilic nel sottoscala (dov’era in custodia a 10 centesimi), e lui passò qualche ora d’inverno sul divano a rileggere per la centesima volta
Soprattutto c’erano dovunque i bolscevichi che si riunivano ogni notte: a Berna nel bosco per ascoltare all’inizio della guerra il disfattismo di Lenin per «un conflitto imperialista e di rapina, in cui il minor male è la sconfitta dello Zar», a Ginevra all’angolo della rue de Carouge dove vivevano gli
oppure sulle sponde dell’Arne dove era sempre aperta la mensa bolscevica, a Bruxelles nella sala piccola del Gallo d’oro, con i rivoluzionari che intonavano ogni tanto arie d’opera, mentre a Zurigo i sovversivi russi, svizzeri e polacchi discutevano ogni sera fino a tardi al caffé Zum Adler, ordinando un’altra birra.
Dibattiti, dispute, assemblee, documenti, manifesti, una militanza feroce e totale su cui incombeva l’eterna ombra menscevica della
la scissione, dietro gli occhiali rotondi e il colletto inamidato di Julij Martov, l’amico-nemico, o l’immagine maestosa dei baffi sovversivi di Georgij Plechanov, il vate del marxismo russo che parlava ai compagni tormentando continuamente un bottone della sua lunga finanziera, maestro di Lenin e poi suo avversario fino alla morte.
Ma Vladimir Ilic ormai sembrava concentrare su di sé tutto lo studio marxista, ogni elaborazione rivoluzionaria, qualsiasi analisi sui compiti del proletariato, come se gli toccasse il dovere di portare a compimento la rivelazione marxiana nella realtà incandescente della Russia di fine impero. Sacerdote della fede rivoluzionaria era interamente votato alla sua missione, quasi avesse un appuntamento con la storia, che nessuno allora avrebbe potuto sospettare. A Zurigo, l’ultima tappa del suo peregrinare in esilio, faceva una vita rigorosamente di studio e il ciabattino Kammerer, padrone di casa, lo vedeva uscire alle 9 coi calzoni arrotolati per evitare il fango di strada, per poi rientrare a mezzogiorno e un quarto e quindi ritornare in biblioteca fino all’ora di chiusura, leggendo e prendendo appunti per il saggio che stava preparando
L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. Costretto a vivere lontano dalla Russia come realtà, con lo studio si immergeva almeno nella Russia come ossessione, la riproduceva, la sezionava, la trasfigurava, le profetizzava il futuro. E intanto metteva a fuoco la teoria della dittatura, un potere conquistato dalla violenza del proletariato contro la borghesia, «non vincolato da alcuna legge». Lo studio impotente che preparava l’azione era diventato un rito, anche se celebrandolo quotidianamente avvertiva la schizofrenia dell’esilio: il contrasto sproporzionato tra «quel bozzolo piccolo borghese» in cui viveva «e quell’altrove, dove invece la vita fermentava». I bolscevichi russi che incrociavano di passaggio i suoi rifugi europei locercavano, e bussavano al suo portone a qualunque ora, come Trotzkij che si presentò poco dopo l’alba, e trovò Lenin ancora a letto, o come Nikolai Bukharin che Nadezda Kostantinovna vide un giorno arrivare giovanissimo, con un sacco di tela in spalla: o come Stalin, che a Cracovia fece una forte impressione a Vladimir Ilic, tanto che il giorno dopo lui scrisse a Maxim Gorkij: «Da noi è giunto un magnifico georgiano». Tutti raccontavano il loro spicchio di Russia, rispondendo alle domande eccitate di Lenin. Poi tutti ripartivano, e lui continuava l’esilio come una condanna, sognando di notte la prospettiva Nevskij, e confessando alla moglie che gli mancava il maestoso Volga.
Come se l’Okhrana, la polizia segreta dello Zar fosse onnipotente anche fuori confine col suo “Ufficio Nero”, Lenin e Nadezda seguivano le regole della cospirazione da perfetti militanti clandestini. A San Pietroburgo Ilic conosceva tutti i cortili sicuri, con le doppie uscite o magari con un giardino fitto di betulle dove attirare la polizia a cavallo in caso di inseguimento per poi seminarla, aPskov frequentava il rilegatore Krylov che scavava nelle copertine dei libri un accesso segreto per nascondere i biglietti più riservati, a Monaco riuscì a farsi fabbricare due passaporti bulgari con le fotografie sue e della moglie, sotto i falsi nomi del dottor Jordanov e della compagna Maritza, che pochi mesi dopo diventarono il professor Ckheidze e la signora Prascovia Oneghina. Per prudenza Lenin scriveva i suoi messaggi in cifra sottolineando due volte il nome del destinatario per avvertirlo che il testo era in codice, e raccomandava a tutti di usare l’inchiostro simpatico negli scambi più compromettenti: con le lettere che poi dovevano essere tagliate a strisce, da affondare nel tè bollente per far riemergere la scrittura.
Come lui, tutti avevano almeno uno pseudonimo: Zinaida Pavlovna era “Lumaca”, Maria Ilyinichna “Orsetto”, Silvin “Vagabondo”, Bauman “Albero”, Elena Stasova “Absolut”, Krassnukh “Cittadino”, Krasilov “Musicista”, Tarsis “Venerdì”, Wallach “Babbino” e Shottmann “Montagna”. Nel gergo cospirativo i giornali clandestini gettati in mare di nottedentro sacchi impermeabili erano “la birra”, i compagni marinai che li recuperavano per contrabbandarli in Russia venivano chiamati “cavalli” e Vladimir Ilic Lenin era detto “il vecchio”: ma sottovoce, perché non sentissero né lui né Nadezda.
Corteggiava la rivoluzione, la arredava ogni giorno di elementi teorici, la aspettava fiducioso, osservando da lontano ogni scricchiolio premonitore del vecchio ordine. Poi all’improvviso l’insurrezione venne a bussare a casa sua a Zurigo il 15 marzo 1917, quando il compagno polacco Mieczyslaw Brònski si precipitò nella stanza di Lenin urlando che la rivoluzione era già per strada a San Pietroburgo: senza aspettarlo, e nemmeno avvertirlo, anzi sopravanzandolo e cogliendolo di sorpresa. Possibile? Giù di corsa per la Città vecchia fino al lungolago, dove i passanti si erano radunati davanti alle bacheche con i fogli dei giornali dispiegati dietro il vetro per leggere la notizia che a San Pietroburgo le operaie della filatura “Krasnaja nit”, Filo Rosso, avevano marciato sul ghiaccio della Neva nello sciopero per la mancanza di pane, accendendo la scintilla inconsapevole della rivoluzione.
Era tutto vero, e Lenin non si dava pace di essere lontano, quasi prigioniero in un Paese libero, per l’impossibilità di rispondere al richiamo dell’insurrezione. Un gorgo di rabbia e frustrazione, tra le voci che filtravano da San Pietroburgo, attraverso la guerra: lo Zar che ha abdicato sul treno imperiale arenato sulprimo binario a Pskov, lo zarevic malato di emofilia che non può raccogliere lo scettro caduto di mano a Nikolaj II, le caserme che si ammutinano, la bandiera rossa che sale sul palazzo dei principi Jusupov, il Soviet operaio che nasce tra le colonne del palazzo Tauride, sede della Duma.
Bisogna tornare in Russia, ad ogni costo, prima che quel fuoco ribelle si spenga, persino compiendo il sacrilegio di attraversare la Germania nemica, in guerra con la Russia. Lenin cerca dovunque un varco nella sua febbre impaziente, nel fronte, nell’Europa in trincea, nella frontiera russa. Lo troverà nella storia, sventrando il corso del secolo, per poi deviarlo definitivamente nella conquista bolscevica dello Stato. Vladimir Ilic guiderà quel sommovimento che incendia il mondo e nello stesso tempo sarà trascinato dalla sua vampata, dall’esilio al vagone blindato, al picchetto d’onore nella stazione di Finlandia, fino ai bagliori dell’Ottobre che lo portano alla guida del Paese: per arrivare infine qui, nella custodia finale del mausoleo con la Russia che si toglie il cappello all’ultimo passaggio del corpo sacralizzato del Capo, il corpo- rivoluzione, il corpo-partito, il corpo-Paese, per l’estremo saluto.
Prima le salve di cannone che rimbombano nella piazza Rossa da tutta la Russia, nell’ossequio di Stato: poi l’omaggio operaio, con l’estetica e l’acustica unite nel suono futurista e ideologico delle mille sirene di fabbrica che assaltano il crepuscolo di Mosca e il tramonto di Vladimir Ilic Uljanov, detto Lenin.