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 2024  gennaio 21 Domenica calendario

L’ombelico del mondo

Taiwan è il tassello che può unire tutti i pezzi della guerra mondiale a pezzi evocata da papa Francesco. Perché il conflitto per Taiwan sarebbe anzitutto duello fra Stati Uniti e Cina, detentore e sfidante per il titolo di egemone globale, prima e seconda economia del pianeta, entrambe potenze nucleari. Scontro destinato immediatamente ad allargarsi. L’America lo condurrebbe dalle basi in Giappone, Corea del Sud e nelle Filippine, oltre che da Guam e dalle sue isole nel Pacifico. Di qui alla discesa in campo di India e Australia contro la Cina il passo potrebbe essere breve. Quanto ai britannici, non si perdono mai una guerra americana. Fino a infastidire talvolta il Numero Uno che se li ritrova accanto anche dove non servirebbero.
Negli ultimi anni Washington ha stretto gli anelli della catena di contenimento di Pechino con lo scopo di sbarrarle la strada per Taiwan. I perni dello schieramento anticinese sono fissati dal Quad, il quadrilatero Stati Uniti-Giappone-Australia-India. Con un certo ottimismo, gli strateghi del Pentagono immaginano che questa collana di avversari della Cina possa tenere anche in caso di guerra. Tutto da dimostrare, considerando le ambiguità degli indiani, adoratori del tatticismo multivettoriale (sto con chi mi serve in tempo e spazio dati), le esitazioni australiane e le velleità di ritorno a un grado di autonomia strategica da parte di Tokyo, potenza atomica latente, unico Stato del fu Asse refrattario a caricarsi di colpe per gli orrori della seconda guerra mondiale. Nella divisa dei suoi ammiragli: “C’è un tempo per i delfini e un tempo per gli squali”. Questo.
Quanto a noi italiani e altri europei, non saremmo spettatori. La Nato non ha più vincoli regionali e Washington non esiterebbe se necessario a mobilitare gli alleati veterocontinentali, tra cui noi. In modo selettivo, secondo classico schema da Numero Uno: la missione fa la coalizione, mai viceversa. La Francia, alleato non allineato, è già in teatro perché potenza dell’Indo-Pacifico, da Mayotte e Riunione alle Isole Sparse, dalla Polinesia alla Nuova Caledonia e a Wallis e Futuna. Se convocata dagli Usa, anche l’Italia potrebbe trovarsi coinvolta. Il nostro apporto militare sarebbe nel caso abbastanza simbolico (non troppo: Ucraina docet). Ad ogni buon conto Roma ha deciso di battere bandiera nei mari attorno a Taiwan, tanto che entro quest’anno la portaerei Cavour è attesa in Giappone. Anche per marcare la recuperata vocazione oceanica della nostra Marina.
La Cina potrebbe in teoria contare sulla Corea del Nord, anti-America di professione. Più probabilmente dovrebbe guardarsi dalle follie del suo apparentemente pazzo regime, non addomesticabile da Pechino. Lo stesso vale per il Pakistan, sodale sulla carta, potenza atomica imprevedibile, soprattutto Stato in decomposizione. Escluso il soccorso dei vietnamiti, comunisti filoamericani in odio a Pechino, e di gran parte del Sud-Est asiatico, pur economicamente legato – come del resto Giappone e Corea del Sud – al colosso cinese.
La Russia, infine. Vorrà immolarsi per Pechino in nome del patto di bronzo che Putin dipinge di ferro – a differenza di Xi Jinping – oppure tentare di restarne fuori, salvo poi allinearsi col vincitore o affermarsi superpotenza per suicidio delle altre due? Interrogati su questo dilemma, al Cremlino risponderebbero probabilmente così: se uno dei due deve prevalere, speriamo sia l’America, pagando il dovuto pedaggio. Per Mosca il trionfo cinese significherebbe finire sotto il nuovo egemone, di cui da sempre diffida, e che già profitta della guerra in Ucraina per penetrare la sfera d’influenza russa in Asia centrale, mirando alla Siberia. Con il caro nemico a stelle e strisce invece i russi si capiscono al volo. Tanto vero che Russia e Stati Uniti hanno finora evitato di farsi direttamente la guerra, mentre cinesi e russi si sono affrontati a più riprese, soprattutto quando si ostentavano entrambi comunisti. Tutto questo per Taiwan? Ebbene sì. Vediamo perché.
Ci sono due ordini di problemi: quelli che hanno una soluzione e quelli che non ce l’hanno. In logica, i secondi non sono problemi. In geopolitica, i nodi che non si possono sciogliere senza spararsi addosso vanno ammorbiditi per evitare che si spezzino. Manutenuti per via omeopatica. Con specialissima cura se la “soluzione” è guerra mondiale. Vivere prima di tutto. È il caso dello status di Taiwan. Una mina che non conviene provare a sminare perché nel tentativo rischierebbe di esplodere e farci saltare tutti in aria. Sulla bandiera della Repubblica di Cina – denominazione tuttora vigente dell’entità taiwanese – le diplomazie internazionali, a cominciare dalla cinese e dall’americana, hanno ricamato con fili bagnati nell’inchiostro simpatico il vero motto:
Nomina non sunt consequentia rerum.
Il nome di Taiwan non rispecchia la cosa. Non deve. L’arcipelago centrato su Taipei è a tutti gli effetti uno Stato indipendente, ma non può né vuole – per ora – definirsi tale. Se lo facesse, un minuto dopo sarebbe attaccato e forse annientato dalla Cina comunista, che lo considera sua provincia, pecorella momentaneamente smarrita. Vi affermate sovrani? Vi distruggiamo. E certamente a quel punto l’America non starebbe a guardare.
Perché la dichiarazione di indipendenza di quello Stato indipendente equivarrebbe a dichiarazione di guerra mondiale? A noi pragmatici occidentali parrebbe follia. Nell’ambiente culturale cinese e negli altri paesi asiatici d’impronta confuciana, la “faccia” viene prima di tutto. Se la perdi sei perduto. In prosa: se la dinastia rossa che dal 1949 troneggia a Pechino e ama richiamarsi a una presunta continuità imperiale di almeno cinquemila anni sancisse la realtà di fatto e accettasse la secessione di Taiwan sarebbe subito rovesciata. Vale per qualsiasi regime pechinese, non importa il colore. Lo stesso riflesso, a parti rovesciate, impedisce a Taipei di accettare gli ultimatum di Xi: tornate a casa o vi ci accompagneremo noi. Vivi o morti.
Per capire meglio, serve breve esplorazione della geografia e della storia recente. Cominciamo dalla geografia, palcoscenico di questo gran teatro asiatico.
Il territorio retto da Taipei equivale alla somma di Lazio, Marche e Abruzzo. Lo abitano oltre 23 milioni di anime, quasi tutte di sinico ceppo han. Ciò che residua (molto poco) si compone di aborigeni di stirpe malese o polinesiana. Taiwan verte sull’isola principale, la Ilha Formosa (Isola Bella) dei portoghesi, che così la battezzarono alla fine del XVI secolo, più arcipelaghi minori e sparsi scogli disputati con i vicini. La sua posizione non potrebbe essere più strategica. Taiwan è incardinata infatti all’incrocio fra Mar Cinese Orientale e Mar Cinese Meridionale, acque contestate lungo le decisive rotte commerciali che legano gli oceani Pacifico e Indiano, cuore economico e strategico dell’Oceano Mondo. È l’equivalente marittimo di uno Stato di passo alpino, all’ennesima potenza: chi regna a Taipei gode d’inaggirabile rendita di posizione geopolitica. Se osserviamo da vicino la carta, notiamo infatti che Taiwan è quasi equidistante da Repubblica Popolare Cinese, Giappone e Filippine. Ovvero dal nemico già compatriota in tarda età imperiale, come pure dalle basi americane installate nell’arcipelago nipponico, vinto e più o meno aggiogato nel 1945, oltre che nella prima colonia conquistata da Washington sconfiggendo la Spagna nella guerra del 1898, battesimo della talassocrazia a stelle e strisce. Cambiando ancora di scala per cogliere i dettagli della geopolitica taiwanese, notiamo che gli avamposti insulari di Taipei, specie Quemoy e Matsu, sono a un tiro di fionda dalla massa continentale dell’Impero del Centro. L’arcipelago di Quemoy era noto durante la guerra fredda come la Berlino Ovest asiatica. In caso di guerra sarebbe il primo obiettivo di Pechino, raggiungibile in un battibaleno.
Se diamo colore geopolitico al freddo dato geografico scopriamo che Taiwan misura i rapporti di forza fra Cina e Stati Uniti. L’obiettivo strategico di Xi Jinping è il signoraggio sui mari di casa, per accedere alle rotte oceaniche. Dunque al primato mondiale, visto che per quelle arterie circola oltre il 90% delle merci globalmente scambiate. Per mari di casa Pechino intende, verso ovest, la prima e la seconda catena di isole, fino all’americana Guam, caposaldo dell’egemonia a stelle e strisce sul Pacifico; verso sud-est, gli stretti malesi e indonesiani, da Malacca a Lombok, chiavi dell’Indo-Pacifico. Condizione indispensabile per cogliere l’alloro supremo, la supremazia nelle acque domestiche: riunire Taiwan alla madrepatria. Limite temporale fissato da Xi: 2049. Centenario della Repubblica Popolare fondata da Mao. Metodo: la conversione pacifica dei taiwanesi al modello comunista, se possibile; la forza, se necessario.
Rovesciamo la prospettiva. Osserviamo lo stesso spazio da Washington. Per la Casa Bianca il Pacifico è l’oceano decisivo. Se gli Stati Uniti ne perdessero il controllo, sarebbero costretti nel pur autosufficiente ridotto nordamericano, tra l’amico Canada a nord, il turbolento ma finora gestibile Messico a sud, più pesci atlantici e pacifici a est e a ovest. Nei laboratori strategici americani la difesa della California comincia dal sistema Taiwan-Guam e dalle basi sudcoreane, giapponesi e filippine, in espansione. La tensione con la Cina ha spinto il Pentagono a sviluppare installazioni informali nella stessa Taiwan, dove operano duecento addestratori (erano trenta due anni fa), dipendenti dal Comando del Pacifico. I piloti taiwanesi sono addestrati presso la base aerea di Luke, contea di Maricopa, Arizona. Altri arriveranno presto negli Usa per addestrarsi ai carri armati Abrams e al sistema lanciarazzi Himars. L’esercito taiwanese è per armamenti, stile militare e pianificazione avanguardia dell’americano. Per Washington è l’anti-Cina, che Pechino intende virare in anti-America.
In parole povere, Taiwan è la frontiera fra Cina e Stati Uniti. Oggi di fatto sotto l’ombrello nucleare americano. Domani chissà. Certo gli anni in cui il presidente Eisenhower definiva la tensione attorno all’isola «una guerra di Gilbert e Sullivan» (celebri autori di operette) e al Dipartimento di Stato si paragonava lo Stretto di Taiwan alla «classica opera cinese, con spreco di tamburi e gong, ma senza il rischio che qualcuno si faccia male», sono decisamente passati.
Acrobazie in giallo
La narrazione di Xi vuole che Taiwan appartenga alla Repubblica Popolare Cinese. La realtà è che non ne ha mai fatto parte. Le dinastie del Drago, salvo l’ultima fondamentalmente idrofobe, guardano con distacco all’isola e ai suoi mari. Persino dopo che nel 1683 i Qing l’aggregano all’impero. Non però come entità specifica, solo quale trascurata appendice del Fujian. Finché nel 1895, strapersa la guerra col Giappone, la cedono all’impero nipponico. Il Sol Levante non sa bene che farsene, tanto che due anni dopo valuta l’opportunità di cederla alla Francia per 100 milioni di yen. Ipotesi subito abortita. Gli amanti della fantastoria si sono così persi lo spettacolo dello scontro fra due Cine, di cui una francese.
La colonizzazione giapponese è inizialmente durissima, salvo col tempo ammorbidirsi. Di più, l’apertura alle mode e alle tecniche occidentali – per fini squisitamente nazionali – tipica del Giappone tra fine Ottocento e primo Novecento produce la prima ondata di apertura alla modernità fra i cinesi di Taiwan. Anche in campo artistico, specie architettonico e musicale. Se oggi i taiwanesi sono vicini all’America lo debbono per paradosso al filtro nipponico. Strana ma effettiva triangolazione Occidente-Giappone-Taiwan, che permette a Washington di trattare l’isola entro le coordinate valoriali, geopoliticamente mobili, del proprio informale impero. Sicché oggi il 60% dei locali vede nei giapponesi gli amici più fidati. E Tokyo tratta la questione di Taiwan da priorità geopolitica, sostenendone le fazioni maggiormente avverse a Pechino.
La sconfitta nella seconda guerra mondiale costringe il Sol Levante a congedarsi da Taiwan. Nel 1949 vi mettono pesante piede i nuovi padroni: cinesi nazionalisti in fuga dalla madrepatria continentale in mano ai comunisti, guidati dal generalissimo Chiang Kai-shek, che vi impone una dittatura brutale e corrottissima. Per contrappasso gli americani, che pure lo sostengono quale rivale di Mao, ne corrompono il nome in Change My Cheque. I nazionalisti si vogliono continuatori della Repubblica di Cina, fondata nel 1912. Denominazione mai dismessa. Tanto che fino a pochi anni fa nella cartografia taiwanese si disegnava l’isola nel contesto di quella repubblica, assai più estesa dell’attuale Cina comunista.
A salvare Taiwan dall’invasione rossa è la guerra di Corea. Mao deve scegliere fra la conquista dell’isola e il sostegno alla Corea di Kim il-Sung, per impedire che i marines si installino ai bordi del fiume Yalu (Amnok in coreano). Sceglie la seconda opzione. In caso contrario, oggi la frontiera fra impero cinese e americano non sarebbe marittima, lungo lo Stretto di Taiwan, ma terrestre. Ai lettori di immaginare che cosa significherebbe lo schieramento parallelo delle truppe di Pechino e Washington lungo lo Yalu (“frontiera fra due paesi” accettando il possibile etimo mancese): faccia a faccia tra Corea filo-occidentale unificata protetta da contingenti Usa e Repubblica Popolare in armi. Non che Xi si senta rassicurato dal condividere un confine con la famiglia Kim, il cui ultimo rampollo ama la roulette russa – in tutti i sensi. Dalla morte di Chiang Kai-shek (1975) e poi del figlio che ne prende il posto (1988), la Repubblica di Cina avvia una formidabile trasformazione lungo tre binari paralleli. Quelli politici, che vedono gradualmente affermarsi una fiorente liberaldemocrazia; quelli economici, che ne fanno un’economia di successo, specializzata in tecnologie avanzate, sicché oggi produce la maggior parte dei semiconduttori avanzati oltre a chip “intermedi” di alta qualità; e quelli identitari, che tracciano il rapido allontanamento dai cinesi continentali fino a determinare la nascita di una specifica nazione taiwanese sotto protezione americana e in strettissime relazioni commerciali con la Cina rossa, suo primo partner per import ed export. Rapporti che verrebbero compromessi in caso di guerra anche breve (-40% del pil secondo Bloomberg, mentre l’economia della Repubblica Popolare subirebbe un taglio del 16,7%). Fattore non ultimo nel preservare la pace fra Taipei e Pechino.
Da mezzo secolo Taiwan cresce grazie all’acrobazia diplomatica concordata fra Stati Uniti e Cina dopo l’apertura di Nixon a Mao in chiave antisovietica, nei primi anni Settanta. Condensata nell’informale tesi della “Cina unica”, in cui ciascuno legge quel che crede. Ma che consente agli Stati Uniti di riconoscere la Repubblica Popolare senza abbandonare Taiwan, anzi rafforzandone la difesa.
Le elezioni presidenziali e parlamentari a Taiwan del 14 gennaio scorso esprimono precarietà e robustezza del compromesso geopolitico nel triangolo Washington-Pechino-Taipei. Il candidato del Partito progressista democratico (Dpp), Lai Ching-te, è il terzo presidente indipendentista consecutivo nella storia del paese, anche se nel nuovo parlamento sarà in minoranza rispetto ai rivali del Kuomintang, disposti a rapporti organici con la Repubblica Popolare. Considerato un radicale ai limiti dell’avventurismo bellico, figura diabolica secondo Pechino, Lai si è per ora allineato alla retorica ufficiale del partito: non c’è bisogno di dichiararci indipendenti perché lo siamo già. Biden si è comunque incaricato di confermare che «gli Stati Uniti non sostengono l’indipendenza di Taiwan», mentre con l’altra mano ha spedito a Taipei una delegazione di ex funzionari di alto livello, conferma del persistente appoggio all’isola sotto schiaffo pechinese.
Cigni neri e rinoceronti grigi
A che punto siamo oggi? Negli ultimi mesi Stati Uniti e Cina hanno concordemente abbassato la retorica bellica. Fino a istituire una camera di compensazione tecnica che connette direttamente i due vertici militari. Obiettivo: evitare che la guerra scoppi per accidente. Ipotesi tutt’altro che di scuola. Ogni giorno aerei, navi e sottomarini cinesi e occidentali si sfiorano nei cieli e nelle acque attorno a Taiwan, specie nel Mar Cinese Meridionale conteso fra i paesi della regione.
Soprassalto di buon senso, nella certezza che la guerra sarebbe doppio suicidio. Il “vincitore” ne uscirebbe comunque devastato. Ma questa non è garanzia per il futuro. Tutto dipende dal senso del tempo. Per paradosso, entrambi temono che l’orologio scorra a favore del nemico. Ciascuno ne trae conseguenze diverse.
A Washington resta forte la corrente che propone di debellare Pechino entro pochi anni perché l’inerzia porta al sorpasso non solo economico. C’è chi discetta di una finestra di opportunità per evitarlo che si chiuderebbe tra 2027 e 2032. Vivere da Numero Due in un mondo dominato dal Numero Uno “giallo”? Non se ne parla. In ogni caso, il motto delle Forze armate americane schierate tra Corea del Sud, Giappone e Filippine è “Fight tonight”. Parola d’ordine coniata dall’ammiraglio Harry Harris, già capo del Comando del Pacifico: dobbiamo essere pronti a combattere un nemico che va trattato per quel che è e non per quel che vorremmo fosse.
Su questo i cinesi sono allineati. Xi Jinping sta accelerando il riarmo a ritmi parossistici. Teme un attacco preventivo, o anche solo un incidente che coglierebbe la Cina in stato di inferiorità. Xi ha dato ordine di produrre entro fine decennio un arsenale nucleare e missilistico tale da stabilire con gli Usa la deterrenza classica, da guerra fredda. Mutua distruzione assicurata, in sigla Mad (Mutually assured destruction). Accompagnata dal rafforzamento della flotta: fino a sei gruppi portaerei, dagli attuali due. L’autorevole analista cinese You Ji scriverà nel prossimo volume di Limes che secondo il leader cinese il pericolo di guerra non voluta sta nei famigerati “cigni neri” (eventi imprevisti) ma più ancora nei “rinoceronti grigi” (minacce ovvie ma ignorate), “su cui Xi mette ripetutamente in guardia i suoi subordinati”. L’impressione è che sotto la vernice della propaganda regni la paura blu di un conflitto che al minimo bloccherebbe per decenni lo sviluppo della Cina, al massimo la riporterebbe all’età della pietra.
Gli strateghi possono e devono produrre piani di emergenza. I decisori politici sono però obbligati a considerare il tono dell’opinione pubblica, la fibra e i sentimenti profondi del proprio paese. Vale per le società aperte come l’America, ma in buona misura anche per la dittatura cinese. Come dimostra, fra l’altro, l’erratica reazione al Covid, culminata nel tana libera tutti perché la gente non ne poteva più della clausura e l’economia ne era soffocata. Fino a che punto americani e cinesi sosterrebbero la guerra per Taiwan e per i mari circostanti? La soglia del dolore parrebbe bassa in entrambi i casi.
L’America è piagata da una crisi d’identità senza precedenti che ne mette in questione coesione e pace sociale. Il documento fondativo di questa amministrazione è infatti intitolato “Geopolitica per la classe media”. Tradotto: prima curiamo il giardino di casa, tutto il resto viene dopo. Cina inclusa.
Nella Cina dei “principini”, i figli unici della nuova borghesia prodotti dalla non lungimirante politica demografica d’inizio secolo, l’umore è tutt’altro che bellico. Per padri e nonni che lo straviziano perdere al fronte il proprio rampollo significherebbe stroncare il futuro della famiglia. Finire sul lastrico. Eppoi la marzialità non è mai stata la cifra dei cinesi, normalmente sconfitti nelle guerre contro le potenze occidentali o comunque avverse. A parte la breve e non gloriosa parentesi della guerretta con il Vietnam (17 febbraio-16 marzo 1979, con riprese negli anni Ottanta) e le scaramucce himalayane contro gli indiani, dopo la guerra di Corea (1950-53) i soldati cinesi non hanno mai dato prova di sé sul campo. Esordire nella partita esistenziale contro gli americani è scommessa al buio.
Il destino di Taiwan è tutto da scrivere. Salvo qualche squilibrato, americano o cinese, nessuno intende scatenare la terza guerra mondiale per determinare lo status dell’isola. Allo stesso tempo, Pechino e Washington sono in modalità bellica controllata. Una scintilla può incendiare lo Stretto più strategico del pianeta, oppure propagarvisi dallo scongelamento del conflitto fra le due Coree, altra vertenza sino-americana di fatto. La storia insegna però che la negazione della realtà, base della Pax Taiwanensis, non vige a tempo indeterminato. Diplomazia, se ancora ci sei batti un colpo.