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 2024  gennaio 21 Domenica calendario

Tre ore al giorno a piedi per 15 minuti di Internet


RAFAH – Ho camminato per ore per riuscire ad avere qualche informazione. Ho camminato sentendomi cieco, incapace di vedere cosa stava succedendo al mio Paese e ai miei cari. L’ho fatto durante gli otto giorni di blackout delle telecomunicazioni che hanno colpito la Striscia di Gaza, la più lunga interruzione di telefonia e internet dall’inizio della guerra. Non posso più utilizzare l’automobile, non ho i soldi per pagare i 50 dollari che costa oggi un litro di benzina, così ogni giorno ho camminato un’ora e mezza per andare fino al confine con l’Egitto, dove un mio amico riusciva a utilizzare le reti egiziane, per poi camminare un’altra ora e mezza per fare ritorno a casa. Il tutto per leggere per quindici minuti i gruppi WhatsApp e Telegram dove noi giornalisti della Striscia ci scambiamo le informazioni.
Ho scoperto così che Israele aveva bombardato le grandi antenne della principale compagnia telefonica di Gaza e che quando i tecnici si erano avvicinati a Khan Yunis per ripararle erano stati colpiti anche loro: due sono morti, due sono rimasti feriti. C’è voluto un accordo tra l’azienda e Israele per riparare finalmente il guasto, e a decidere i tempi sono stati loro. Ho scoperto inoltre dei cimiteri dissacrati a Khan Yunis dove l’Idf ha dissotterrato cadaveri, distrutto tombe, calpestato i nostri morti con i loro carri armati. Hanno preso almeno 21 corpi, li hanno portati in Israele, li hanno analizzati e poi li hanno riportati nella Striscia, lasciandoli senza sepoltura. Lo hanno fatto, dicono, nella ricerca dei resti degli ostaggi catturati il 7 ottobre e perché sostengono che nei nostri cimiteri possano nascondersi miliziani di Hamas. Ho saputo che Israele sta continuando a sfollare persone dal Nord e da Gaza City, qui almeno quattro scuole che ospitavano rifugiati sono state sgomberate: qualcuno è stato arrestato, tutti gli altri sono stati spediti qui al Sud. Ora siamo almeno un milione e800mila persone nello spazio ridotto della città di Rafah.
Tutti sappiamo che questa non è più una guerra temporanea, i più speranzosi immaginano che finirà tra tre mesi, e quello che sentiamo dai discorsi di Netanyahu ci fa capire che Israele non ha fretta nel portare a compimento i suoi obiettivi militari e tantomeno ce l’ha Hamas. Ieri sono stati lanciati a Sud decine di volantini con le foto degli ostaggi ancora in cattività: Israele non è in grado di liberarli, Hamas non vuole farlo, a noi chiedono di fornire informazioni, anche in cambio di denaro, ma nessuno di noi conosce la loro localizzazione.
Siamo in guerra da oltre cento giorni, senza più cibo, medicine,senza speranza. Siamo stanchi, arrabbiati all’idea di dover vivere ancora nelle tende. Troppi civili continuano a morire: due giorni fa le vittime sono state 165 in 24 ore, 208 i feriti; ieri venti persone sono state uccise a Maghazi mentre le aree intorno all’ospedale Nasser e al quartier generale della Mezzaluna Rossa a Khan Yunis continuano a essere bombardati senza tregua uccidendo innocenti. Nelle mie lunghe camminate, le persone incontrate mi domandano incessantemente “quando finirà?”.
In questi lunghi otto giorni al buio ci siamo ritrovati davanti al fuoco. Un tè, un po’ di latte e qualche biscotto portato grazie agli aiuti umanitari. Ogni sera per ore adascoltare i canali radio egiziani e cisgiordani che riuscivamo a intercettare grazie alla radio sul mio cellulare che funziona anche senza internet. Abbiamo seguito e discusso in particolare del processo per genocidio contro Israele, dei tentativi del Qatar di trovare accordi per un cessate il fuoco e di tutte le notizie che arrivano dall’Egitto e da Israele. Le notizie dalla guerra in Ucraina, dalle Nazioni Unite, dai Paesi arabi ora ci interessano meno. Ci siamo sentiti traditi. Ma i più giovani hanno ascoltato con interesse anche le partite di calcio dei campionati europei ed egiziano, discutendo animatamente di allenatori e calciatori con i più anziani. Ognuno a suo modo ha provato a far fronte al blackout. Andando verso il confine con l’Egitto ho scoperto che qualcuno aveva ricreato una sorta di internet cafè, come quelli che andavano di moda decenni fa. Davanti a una casa almeno quindici persone sedevano su sedie in plastica, bevendo tè e godendo del sole e della connessione che il padrone di casa – grazie a una scheda telefonica egiziana – metteva loro a disposizione per uno shekel all’ora, soltanto 20 centesimi.
Ma se penso a tutti i chilometri che ho percorso in questi otto giorni, l’immagine che più ricorre nella mia mente è quella di migliaia di persone sedute, senza poter fare niente. Neanche leggere un libro. A Rafah non se ne trovano e nessuno di noi ne ha portato uno con sé. D’altronde siamo tutti fuggiti all’improvviso, senza riuscire a portare via neanche le coperte o gli animali domestici. Se solo potessi tornare indietro, però, al momento in cui ho lasciato casa insieme a mia moglie e alle mie due figlie, allora andrei di corsa verso la libreria e prenderei almeno un romanzo di Dostoevskij. Anzi, prenderei un libro di Jean-Paul Sartre. Ho bisogno delle sue parole per farmi portare via da qui.