Corriere della Sera, 21 gennaio 2024
E Mussolini derise i nazisti
«Nòcciolo» del fascismo può ritenersi, al di là di altri caratteri contingenti, il suprematismo razzistico, in quanto punto terminale della costante esaltazione della propria nazione avvertita come «comunità naturale». Meno importa la distinzione tra razzismo «biologico» e razzismo «culturale». La sostanza è, per entrambi, l’autosuggestione della superiorità «bianca», del mondo euro-americano. In Asia, fenomeno analogo fu il suprematismo omicida del fascismo giapponese nei confronti della Cina.
Sia ben chiaro: questo modo di porsi (e purtroppo anche di agire) è nato e si è diffuso ben prima che il fascismo prendesse forma, e fece le sue prime esperienze nel mondo coloniale. Si possono cercare gli antecedenti già nel mondo liberal-conservatore francese (il conte di Gobineau e il suo noto e influente saggio sulla inégalité delle «razze umane»); nel mondo germanico; nel mondo nordico (eugenetica svedese, che non rimase certo un’opzione unicamente teorica); e soprattutto nel mondo anglosassone, sia inglese che nord-americano.
In Usa esiste ancora oggi, presso il National Historical Museum, una raccolta di 255 cervelli, conservati in contenitori, per lo più di persone nere o native: una raccolta iniziatasi intorno agli anni 10 del Novecento, finalizzata a documentare la superiorità razziale «bianca». Molte cose cambiano quando tutto ciò diventa dottrina «di Stato». E lo Stato adopera la forza per imporla.
Peculiare del fascismo italiano fu, appunto, di aver man mano favorito, sorretto, e alla fine reso norma e legge questo gruzzolo di concezioni para-positivistiche, pseudo-scientifiche devianti e dagli effetti mortiferi.
E ha potuto farlo dopo essere stato portato al potere dalle robuste correnti e istituzioni liberal-conservatrici e nazionalistiche, che assisterono – complici e consenzienti – alla mutazione di un movimento politico spregiudicato e magmatico in macchina repressiva.
Nel nazional-razzismo fascistico confluivano anche arruffate nozioni di storia: un pastiche di «antica Roma», «continuità italica», «primato italiano» alla maniera del trattato giobertiano, «Italia Centro della Cristianità», colonialismo nostrano «civilizzatore», disprezzo del «diverso» (misto a paura inconfessata nei suoi confronti).
Non mancò mai, in tutto questo, un tocco opportunistico. Giova ricordare, ad esempio, che, prima dell’avvicinamento sempre più impegnativo alla Germania, in momenti di tensione col governo hitleriano Mussolini adoperava toni sprezzanti verso le pretese di superiorità razziale germanica: «Non conoscevano la scrittura mentre noi avevamo Cesare, Augusto e Virgilio» tuonò dalla Fiera del Levante di Bari (6 settembre 1934), beccandosi una quasi immediata replica da parte del «filosofo» del nazismo Alfred Rosenberg nel discorso inaugurale da lui tenuto all’Università di Monaco (7 novembre 1934) sul tema Libertà e Scienza. Mussolini aveva detto: «Trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine d’Oltralpe sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura». Rosenberg replica: «In questi mesi a Roma vengono tenuti discorsi nei quali si afferma che solo con pietà si può guardare a certe affermazioni formulate al di là delle Alpi, cioè presso di noi». E ribatteva, all’argomento comparativo del Duce, che a loro volta i Romani erano analfabeti quando erano fiorentissime le civiltà egizia o babilonese; se la questione – precisava – fosse solo la maggiore antichità «allora a Roma dovrebbero esaltare le civiltà egizia o babilonese!».
La reazione tedesca
La replica: se fosse questione di antichità gli italiani dovrebbero esaltare Egizi e Babilonesi
Sottinteso è che quelle civiltà tipicamente «orientali» erano – nell’ottica «ariana» di Rosenberg – storicamente fattori negativi, e perciò egli era persuaso dell’effetto sarcastico della sua replica e ritorsione polemica.
Per completezza va osservato che, quell’anno (1934), la disputa – allusiva al presente – sulla «inferiorità» degli antichi Germani rispetto a Roma l’aveva avviata Stalin, in una battuta ironica del Rapporto al XVII Congresso del Pcus (26 gennaio 1934): «L’antica Roma aveva qualche ragione per trattare come “razza inferiore” gli antenati dell’odierna “razza superiore”».
Può apparire singolare che la disputa sulla pretesa nazionalsocialista di una superiorità razziale tedesca (con implicita autolegittimazione a un dominio sulle altre nazioni) si sia sviluppata in quell’anno a partire dal gennaio 1934 (con tappe significative in settembre e novembre).
Questo manifestarsi della polemica fuori dalla Germania (Urss, Italia), sembra legato al precipitare, tra marzo e luglio del 1933, dell’assetto politico-istituzionale della Germania: il rapido scioglimento via via di tutti i partiti (ultimo il Centro cattolico il 10 luglio), l’accordo col Vaticano, la sostanziale liquidazione dei poteri del presidente della Repubblica, Paul von Hindenburg.
A quel punto le teorie esposte nel Mein Kampf, e ora ripetute e amplificate ossessivamente da tutti gli strumenti di comunicazione, non erano più le torrenziali e poco note pagine del libro giovanile del neocancelliere Adolf Hitler. Ora costituivano il programma, pronto per essere attuato, del partito-Stato non più tenuto a freno da contrappesi interni. Un programma che la violenta capacità di azione fino a quel punto dimostrata dal capo della «rivoluzione nazionalsocialista» faceva paventare come proiettato ormai verso un’attuazione all’esterno: verso i popoli ritenuti inferiori, quali i «Latini», gli «Slavi» oltre, beninteso, gli Ebrei.
Fede nella propria «superiorità» e volontà di imporla (come previsto nel Mein Kampf) diventavano ora una minaccia reale. Donde l’allarme e le reazioni di cui s’è detto, inusuali nei normali rapporti tra Stati. Dal punto di vista del «galateo» dei rapporti tra Stati, era una «ingerenza negli affari interni»: ma la novità era costituita da un’allarmante forza politico-statale ormai vittoriosa e protesa ad affermare i propri propositi di dominio, basati appunto su teorie «razziali», verso il mondo esterno.