Corriere della Sera, 21 gennaio 2024
Intervista a Leo Gullotta
Quando Berlusconi arrivava al Bagaglino si presentava con un gioiello a forma di farfalla per le donne e con un orologio per gli uomini.
«Ma io non mi facevo mai trovare, me ne stavo sempre in camerino».
Evitava volutamente di incrociare Silvio Berlusconi?
«Certo. Ovviamente c’era una corte di persone che faceva la corsa per assistere a questa divisione di pani e di pesci, per ottenere questi regali, le farfalline, gli orologini... Io personalmente non ho mai preso nulla. Il mio compito era lavorare bene. Il resto non mi interessava».
In questo racconto c’è molto di Leo Gullotta, attore che ha declinato il suo talento a teatro, al cinema con Nanni Loy e Tornatore, in televisione cominciando con Falqui per venire poi preso in ostaggio da Pingitore che gli farebbe leggere anche l’elenco del telefono. Si guarda indietro con occhi accesi, nessun rimpianto, nessuna recriminazione.
Lei è nato a Catania, ultimo di sei figli.
«Sono cresciuto in un quartiere popolare, papà pasticcere ci ha mandati tutti a scuola. Era un operaio, fu lui a portare la Cgil a Catania, per questo sono cresciuto attraversato da principi civili e sociali. Papà ha iniziato a ripetermelo quando avevo 4 o 5 anni ed è andato avanti per parecchio tempo: devi rispettare tutte le persone che hai davanti».
Sua mamma?
«Era una casalinga, un generale, una classica rappresentante di quello che è stato sempre nel nostro Paese il matriarcato: era quella che mandava avanti la casa, pensava ai sei figli, alla scuola, a tirare dritto, a fare risparmi».
Guardi che in Italia c’è il patriarcato...
«È un trucchetto. Sappiamo che l’Italia storicamente è stata guidata dal matriarcato, anche nelle rivoluzioni. Bertolucci in quel film meraviglioso che è Novecento ha raccontato benissimo l’attenzione delle donne verso i propri diritti».
Le donne sono più coraggiose degli uomini?
«Assolutamente sì, i maschietti sono sempre stati boriosi, hanno sempre voluto il comando, il potere, una parola che li affascina, ma poi...».
Cosa vuol dire nascere in un quartiere popolare nell’Italia del Sud degli anni Cinquanta?
«La vita ti si presenta prima, quindi cresci più velocemente, questa è l’impronta più forte. Negli anni Cinquanta in una città come Catania non c’era nulla per noi ragazzi, ma io ero un bambino curioso. La curiosità mi ha avvicinato al teatro, comprai un biglietto a 500 lire senza sapere per cosa e vidi uno spettacolo meraviglioso, l’Adelchi di Manzoni con Vittorio Gassman. Fu una fascinazione improvvisa e immediata».
Non aveva il sacro fuoco del palcoscenico?
«No, nacque per caso. Fu sempre la curiosità a spingermi a frequentare una scuola di teatro rivolta agli universitari, ma io mi infilai lo stesso. Lo spettacolo di fine corso fu visto da Mario Giusti, il grande direttore che ha inventato e poi diretto lo Stabile di Catania per 30 anni».
Da Pirandello al Bagaglino, da Shakespeare a Pippo Franco, da Sciascia a Valeria Marini: come si possono mettere insieme cose così lontane?
«Questo deve fare l’attore: è il mio lavoro, bisogna conoscere la commedia, il dramma, il varietà; è il mio compito di mestierante. Al Bagaglino non si passava il tempo tanto per farlo passare, si lavorava tanto. C’erano il grande Oreste Lionello, c’era Pippo Franco, stiamo parlando di professionisti eccellentissimi. Con quella trasmissione che in 20 anni ha avuto ascolti impensabili ho avuto il piacere di entrare nelle case degli italiani. E ne sono felice, perché è anche così che si comunica con il pubblico».
C’è chi usa il temine Bagaglino in modo dispregiativo. La ferisce?
«Penso che ci sia malafede. Si può pensarla diversamente – il Bagaglino può piacere o non piacere – ma la malafede imperversa...».
Era anche la passerella della Prima Repubblica.
«I politici sono sempre stati facce di tolla, mica solo ora. Davanti ad ascolti straordinari, parliamo di milioni di spettatori, i politici di ogni schieramento facevano a gara per venire perché una serata lì valeva come una campagna elettorale».
Il più faccia di tolla?
«Erano tutti un po’ squallidi, a parte qualcuno. Andreotti era una delle rare eccezioni, era estremamente spiritoso. Anche Oscar Mammì. Il resto era di un livello imbarazzante. Pur di esserci venivano a prendere le torte in faccia...».
Le primedonne erano Pamela Prati e Valeria Marini.
«Si impegnavano, si impegnavano tanto, erano molto professionali, non era una cosa che si risolveva in un pomeriggio, si provava per tutta la settimana».
Il loro risultato attoriale onestamente non sembrava granché.
«Cercavano di fare il loro mestiere: in quella struttura così importante non c’era nulla di intentato o casuale, ogni parola era scritta, era tutto fatto professionalmente. Oggi invece è tutto improvvisato. Oggi è vai avanti tu, senza nemmeno la famosa aggiunta, vai avanti tu cretino».
Lei ha vinto anche l’Oscar.
Ride. «Praticamente si, con “Nuovo Cinema Paradiso” di Tornatore, conservo ancora il bellissimo telegramma che ho ricevuto da parte del produttore: un pezzettino di questo Oscar è anche tuo».
Che ricordi ha del set?
«Un periodo bellissimo, stavamo tutti insieme, la gente ci ospitava tutte le sere nelle loro case: questa disponibilità, questo affetto, questa umanità sono le sensazioni che mi porto dietro come ricordo».
Mai stato pugnalato alla spalle?
«Sempre. Capita sempre. Bisogna incazzarsi per quel momento e poi buttarsi tutto alle spalle, reagire, terminare in avanti».
La pugnalata peggiore?
«Quando in un Paese democratico come l’Italia mi sono sentito dire: no guarda, tu non lavori con noi perché sei omosessuale. Quell’episodio mi fece molto male. Durò un pomeriggio, cominciai a protestare, ad alzare il ditino: era sbagliato, volevo che me lo dicesse in faccia chi lo aveva deciso. Ma la mia domanda veniva sempre elusa: la colpa era sempre di qualcun altro. I diritti sono arrivati, ma moltissimo si deve ancora fare, non solo per gli omosessuali».
Il riferimento è alla fiction della Rai su padre Pino Puglisi, era il 2012.
«In quel momento Puglisi era in odore di beatificazione e un funzionario Rai ebbe paura che lo mandassero via perché un personaggio del genere non poteva essere interpretato secondo lui da un omosessuale. Alla Chiesa però non interessa assolutamente nulla di tutto questo, ho fatto tanti personaggi in abito talare e la Chiesa non mi ha mai detto nulla».
Nel 1995 rivelò di essere omosessuale.
«Ero alla conferenza stampa di presentazione del film di Christian De Sica “Uomini, uomini, uomini”, storia di quattro omosessuali borghesi. A un certo punto un giornalista mi chiese se ero omosessuale. Risposi: Sì. Perché? Mi dica. Rimase zitto. Ma tutto questo fece molto scalpore. Oggi abbiamo fatto qualche passo avanti per fortuna».
Ha sempre saputo di essere omosessuale?
«Fino ai 30 anni ho vissuto una vita eterosessuale, poi ho capito che la cioccolata non mi piaceva più: desideravo la crema, e così ho fatto».
Essere cresciuto al Sud, in provincia, ha in qualche modo influito in questa scoperta «tardiva»?
«No, non ho mai avuto pesi di nessun genere. Ho vissuto un’infanzia e un’adolescenza tranquille, serene. Certo, non per tutti è così, in provincia tanti soffrono».
Con questo governo teme una regressione?
«Dio ce ne scampi e liberi... Viva l’Italia antifascista».
Attenzione che ora arriva la Digos... Tra i suoi talenti c’è anche quello di doppiatore.
«Il doppiatore è un traduttore simultaneo, ma poi la qualità attoriale fa la differenza: non devi far altro che rispettare i loro tempi, le loro intenzioni e avvicinarti il più possibile a quello che loro portano sullo schermo».
Doppia anche Woody Allen, vi siete incontrati.
«Gli ho stretto la mano quando dopo la morte di Oreste Lionello la scelta cadde su di me, all’epoca di “To Rome with Love”: è stato il primo film brutto – l’unico forse – di Woody Allen».
In questo periodo è in tour con lo spettacolo «In ogni vita la pioggia deve cadere»: autore e sul palco con lei Fabio Grossi, suo marito.
«Il pubblico ha bisogno di essere scosso, ha paura, è messo di lato, ha troppa voglia di non pensare, è chiuso a riccio: questo spettacolo serve a questo, a tirare fuori i fantasmini che il pubblico ha nell’anima. È la storia di due persone di una certa età che si sono amate per 40 anni, con tutti i loro problemi, il rispetto, i sentimenti, la fedeltà, la serenità, poi a un certo punto arriva la pioggia e i drammi si devono vivere».
Può sembrare autobiografico.
«Assolutamente no, è la storia di due persone, vale per qualsiasi coppia».
Ha appena compiuto 78 anni. L’età che avanza...
«Lavorando sempre non ci si pensa. Se la salute traccheggia o dà problemi, allora ti fermi a pensare e a riflettere, sprofondi nei ricordi. Ora me ne mancano due agli 80 e mi reputo un fortunato dalla vita».
Alla morte ci pensa?
«Tutti ci pensiamo, ma facciamo finta di non pensarci. Certo mi disturba l’idea di non poter vivere più questa vita che anche con i suoi problemi rimane meravigliosa».
E dopo cosa c’è?
«Chi lo sa, bisogna frequentarlo per saperlo...».