Corriere della Sera, 21 gennaio 2024
A Roma nella sede del tribunale monocratico: un labirinto di lingue, liti e ritardi. Tra ciabatte e tute (anche se vietate)
Il luogo è, senza possibilità di dibattito, inospitale. L’estetica: cemento armato grezzo alle pareti, condutture a vista, un generale senso di fatiscenza. La logistica: 27 aule sparpagliate su mezzanini, piani rialzati, dislivelli che ricordano le scale ne la Relatività di Escher. I tempi di permanenza, infine, sono impronosticabili. Tanto che, se al momento di presentare una denuncia ci fossero delle visite guidate alla palazzina B della cittadella giudiziaria di Roma, sede del tribunale monocratico – reati colposi, delitti contro il patrimonio o gli interessi collettivi – forse qualcuno ci ripenserebbe.
Invece, la relazione dell’ultimo anno giudiziario evidenzia che pur se i processi definiti sono passati da 12.630 a 14.772 (+17%), il cumulo di fascicoli arretrati è diminuito solo dello 0,9% (da 22.771 a 22.555). E questo perché le nuove iscrizioni sono aumentate del 48,5% (da 9.779 a 14.556). «Sulle definizioni dei processi monocratici – scrive il presidente della corte d’Appello, Giuseppe Meliadò – incide in maniera significativa lo scarsissimo interesse che continua ad accompagnare i riti alternativi». Ti faccio causa non è un modo di dire.
Le aule più grandi sono al primo piano, dove la pavimentazione in simil-sampietrini e l’ampiezza del corridoio ricordano la piazza di un borgo di medie dimensioni. Che invece di spopolarsi continua però ad essere frequentatissimo. «Un’articolazione di strutture portanti, rampe, diaframmi e dislivelli, determina la formazione di una sequenza di spazi micro-urbani, una “architettura-città”», è la descrizione che di questo edificio, costruito nei primi anni 60 con le sue due palazzine gemelle, dà il portale di architettura Archi Diap. La «città» del monocratico è fatta di cognomi arabi e cinesi, sudamericani e romani, dell’est Europa e dell’Africa sub sahariana. Invece dei citofoni, i «ruoli» delle udienze dove sono imputati. Storie di vita grandi e piccole, delinquenza comune o fatti dalla grande eco. In un’aula Roberto Saviano è accusato di diffamazione da Giorgia Meloni, in quella a fianco due sorelle hanno litigato davanti al letto di morte della mamma per il tipo di cure da somministrarle (esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minacce).
Orientarsi è impresa assai difficile. Le aule dalla 1 alla 6 sono al piano rialzato, pur se indicato come piano terra. Quelle successive sono nel corridoio parallelo, otto scalini più in basso. La freccia per le aule dalla 7 alla 11 è a specchio rispetto a quella per le sezioni dalla 7 alla 10. La «stanza 26», non è l’aula 26. Dei quattro ascensori centrali, due sono riservati agli avvocati (ma solo dal primo piano) e comunque assai di rado funzionano assieme. Gli avvisi a penna su fogli volanti sono ovunque. Genere horror: «Non aprite questa anta della porta». Delicato: «Accompagnate gentilmente la porta». Flou, con evidenziatore rosa: «Non accendete il condizionatore». Oggetto di contenzioso: «I testi sono pregati di dare il nominativo all’ufficiale giudiziario», con l’ultima parola cancellata e sostituita da «cancelliere». L’obbligo di mascherina è di fianco all’indicazione di poter entrare «solo se abbigliati in maniera consona». Ma ciabatte, tute acetate e scollature degne di migliori occasioni sono ormai sdoganate. Nell’aula 19 si scorge ancora «Pretura della Repubblica»: il reperto più datato assieme ai telefoni funzionanti (25 anni fa) con le tessere Telecom.
Vip e vicende comuni
Accanto alla causa tra Saviano e Meloni, ecco quella per una lite di condominio
Davanti all’aula 15 un gruppo di ragazzi un po’ freak fa cerchio sedendosi a terra in attesa dell’udienza di un loro amico accusato di spaccio (e poi assolto). Alla 3, una decina di anziani scalpita per testimoniare contro l’amministratore di un condominio a Trastevere che per anni non ha pagato le bollette. La denuncia è del 2018. Di solo un anno più recente è il caso del cameriere che sostiene di essersi ustionato con la lavastoviglie del pub. L’elettrodomestico è stato intanto sostituito e il principale ricorda solo «una perdita d’acqua». Meno coinvolto emotivamente è l’avvocato di una compagnia di autonoleggio che accusa un conducente di un finto incidente: «La Fiat dell’imputato ha attinto un quadriciclo imboccando la rotonda di Pachino, direzione Marzamemi», legge il giudice per riprendere il filo. Era il 2017.
Sottorganico e spesso precari i giudici possono dedicare solo per una parte del loro tempo a condurre i processi, impegnati per il resto in un infinito sudoku di date da trovare per le udienze, testimoni da riconvocare, avvocati da sostituire. Una breve sequenza dall’aula 10. L’avvocato di fiducia, dell’ordine di Vibo Valentia, non c’è e non è la prima volta. La giudice, «per dare continuità alla difesa dell’imputato», aveva chiesto al sostituto, nominato d’ufficio nella precedente udienza, di presenziare anche a questa, ma lui confessa: «Non saprei cosa dire». Si passa all’udienza successiva, ma manca il collegamento con l’imputato dal carcere di Velletri. All’agente della penitenziaria, raggiunto al telefono, non risulta nulla in calendario. L’udienza viene rinviata a maggio. Nel terzo processo l’intoppo è l’assenza dei testi, una in gravidanza a rischio, l’altro irreperibile. Altro rinvio a cinque mesi (la parte lesa, vittima di un incidente, ha 81 anni). Quarta udienza, sembra tutto a posto, la giudice quasi esulta: «Bene!», ma manca uno degli avvocati di fiducia e quello che sostituiva la collega di Vibo, già con un piede fuori dall’aula, accetta anche questa sostituzione. L’unico teste è però l’agenteche ha raccolto la denuncia ma non ha svolto indagini e non può entrare nel merito. Il tempo di dare le generalità e viene congedato. Si arriva così al paradosso di essere in anticipo sulla solitamente ritardata tabella di marcia (anche 33 udienze per mattinata nella singola aula) ma di non poter celebrare nessun processo perché gli avvocati delle cause successive ancora non ci sono. «Un’ora di pausa», si rassegna la giudice.
Quella delle sostituzioni tra avvocati è una prassi assai comune. Alla 8, però, la procedura si ingarbuglia. Il titolare ha nominato una sostituta ma senza prima formalizzare la revoca del mandato. Il giudice si affida alla sostituta e lei, pur essendo presente, spiega di non voler essere indicata come tale ma di essere disponibile a figurare d’ufficio. Il giudice mette kafkianamente a verbale che il sostituto indicato dal titolare «è presente in aula ma solo come avvocato d’ufficio e non è a conoscenza del processo». Aula 7, stavolta è l’imputata ad essere assente, è un suo diritto, ma lei produce comunque certificato medico: «Come legittimo impedimento?», chiede il giudice al suo difensore. «No, per farvi sapere che ci teneva», dice il legale allargando le braccia.
In questo affanno, l’equivoco è dietro l’angolo. Alla 16 si processa un somalo che spacciava alla stazione Tiburtina. La traduttrice con abnegazione cerca di rendergli comprensibile la deposizione del carabiniere infarcita di gergo da verbale («Il predetto si portava nelle prossimità dell’aiuola...»), ne ripete anche la gestualità quando il militare mima l’hashish nascosto in tasca. Poi si scopre che, al momento di essere fermato, l’imputato ha detto di capire l’italiano. Alla 19, pur dopo una lunga attesa, l’avvocato di parte civile fa il bel gesto di accettare uno slittamento della sua udienza perché la collega di parte avversa, ha una concomitanza con il tribunale sorveglianza. Lei si offre anche di fare spola, il giudice la rassicura, riesce ad attenderla anticipando un’altra udienza. «Allora non vengo più processato?», chiede intanto l’imputato per furto, jeans nero sfrangiato al ginocchio, illuminandosi. Qualche minuto dopo è al telefono con la compagna: «No amò, avevo capito male io».