Corriere della Sera, 21 gennaio 2024
I giochi di Erdogan
Un colpo al cerchio e uno alla botte. Sarebbe troppo semplicistico spiegare così la politica contraddittoria del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, l’uomo che dal 2003 tiene in mano le redini di un Paese cruciale nello scenario mondiale. Membro della Nato ma vicino a Putin, con cui condivide l’inclinazione a dare prove testosteroniche di autocrazia, il Sultano – come è soprannominato per la gestione dispotica del potere: l’arresto di giornalisti e oppositori, il controllo della magistratura, la repressione dei curdi – è un equilibrista per antonomasia.
L’esempio più recente è la guerra scoppiata in Medio Oriente dopo il terribile massacro compiuto da Hamas lo scorso 7 ottobre. Se da una parte Erdogan tuona contro il premier israeliano che definisce senza mezzi termini «un nazista», dall’altra il suo Paese continua imperterrito a fare affari con lo Stato ebraico, come ha rivelato il giornalista turco in esilio Metin Cihan che ha documentato un flusso costante di navi turche verso Israele. Secondo dati resi pubblici dall’Assemblea degli esportatori di Turchia a novembre, nonostante i bombardamenti a Gaza, Ankara è rimasta la principale fornitrice mondiale d’acciaio di Israele, per un valore di 43,9 milioni di dollari. Materiale bellico incluso.
In Turchia, dove la popolazione è fortemente pro-palestinese, queste notizie hanno provocato grande indignazione mentre nessuno critica il fatto che Istanbul è il centro delle operazioni finanziarie di Hamas che ammontano a circa due miliardi e mezzo di dollari l’anno.
I leader dell’organizzazione, come Khaled Meshal, fanno tranquillamente la spola tra la megalopoli sul Bosforo e il Qatar, dove hanno il loro quartier generale. D’altra parte Erdogan non ha mai nascosto la sua ammirazione per quella che lui definisce un’organizzazione «fatta di combattenti per la liberazione, non di terroristi».
Ambivalente è anche il rapporto con la Nato di cui la Turchia fa parte dal 1952. Ankara, per dirla con le parole del ministro degli Esteri turco Hakan Fidan, è critica del sostegno «dato da alcuni Paesi della Nato, come gli Usa, al Pkk/Ypg in Siria» e «delle sanzioni imposte alla Turchia nel settore della difesa». Brucia anche il lungo stallo nell’adesione all’Unione europea, Ankara ha fatto domanda nel 1987 e i colloqui sono iniziati nel 2005.
Mentre il mondo è preso dalla guerra in Ucraina, dal conflitto mediorientale e dalla possibilità che si estenda su altri fronti, il governo turco ne approfitta per lanciare attacchi ai curdi con missili e droni oltre i suoi confini, con dozzine di raid, sia nel Nord della Siria che in Iraq. A scatenare l’azione militare è stata l’uccisione, il 12 gennaio, di 9 militari turchi nel nord dell’Iraq per mano del Pkk. Il giorno dopo Erdogan ha giurato di «cancellare l’esistenza di Terroristan», anche pensando alle prossime elezioni amministrative del 31 marzo che potrebbero consentirgli di riconquistare la sua amata Istanbul e la capitale.
Nonostante tutte queste contraddizioni la Turchia rimane centrale sia nella crisi tra Israele e Gaza che in quella tra Kiev e Mosca, basti pensare all’accordo sul grano sbloccato proprio grazie ad Ankara o all’ingresso della Svezia nella Nato. Senza considerare temi cruciali per l’Italia come quello dei migranti e dell’energia. Ed è per questo che la visita Giorgia Meloni, la prima da presidente di turno del G7, è una mano tesa.