Corriere della Sera, 21 gennaio 2024
Intervista al fratello di Sarah Scazzi
«Poteva salvare Sarah. Non ho rancore ma non posso perdonare Misseri». Sul delitto di Avetrana parla Claudio Scazzi.
varese «Quando incrocerò di nuovo il suo sguardo credo che proverò indifferenza. Per lui non nutro rancore ma non potrò mai perdonarlo perché se avesse chiamato i soccorsi quando ha trovato mia sorella Sarah nel suo garage forse non sarebbe volata in cielo quel maledetto 26 agosto del 2010». Claudio Scazzi, fratello maggiore della 15enne uccisa ad Avetrana, oggi ha 38 anni e sa che, fra qualche settimana, suo zio Michele Misseri uscirà in anticipo dal carcere dopo aver espiato la pena per aver soppresso il cadavere della nipote gettandolo in un pozzo.
Claudio Scazzi pensa sia giusta la scarcerazione anticipata di suo zio Michele?
«È ciò che gli ha concesso la legge. Gli avvocati in questi anni ci avevano avvertito: prima o poi uscirà. Piano piano, ci siamo preparati mentalmente a questo giorno».
Lo ha mai più incontrato?
«Anni fa, dopo la custodia cautelare, era ritornato ad Avetrana in attesa del giudizio. Le nostre case distano una manciata di metri. I nostri sguardi si sono incrociati a distanza ma non ho provato nulla. Ero come anestetizzato. Una mia frase o un mio gesto non solo non mi avrebbero riportato Sarah ma avrebbero potuto influire sul processo».
Eppure suo zio sostiene di essere il vero omicida.
«È smentito dalle sentenze. Quando è stato portato nel garage dove è stata uccisa non ha convinto su come avrebbe agito. La sua mi pare una strategia: più un cercare di far capire a moglie e figlia quanto tenga a loro che ottenere un risultato processuale».
Cosima e Sabrina le chiederanno mai perdono?
«Non mi pongo il problema perché non avverrà mai. Mia cugina forse non confessa l’omicidio di Sarah anche per avere uno “scudo” quando uscirà dal carcere».
Sarah ha avuto giustizia?
«Sì ed è sempre stato encomiabile l’impegno di inquirenti, pm e giudici. Sarebbe stata una vittoria anche senza le condanne. La loro “sete” di giustizia per Sarah mi ha dato forza per andare avanti».
Qual è stato il momento più difficile per lei?
«I primi giorni. Ho dovuto prendere le redini della famiglia. I miei genitori erano piegati dal dolore ed erano assediati in casa: carabinieri, avvocati, amici, giornalisti. Una pressione insostenibile per loro. Così ho scelto di espormi solo io per farli respirare e sottrarli anche ai “riflettori”».
Dopo una tragedia simile come si riannoda la vita?
«Ci sono tre passaggi chiave: l’aver ritrovato il corpo di mia sorella avendo un posto dove portarle un fiore, l’aver stabilito come e chi l’ha uccisa, le condanne. Poi siamo stati aiutati dalla dilatazione temporale dei tre passaggi. Non c’è stato uno choc immediato. Le sentenze definitive mi hanno dato certezze. Mi sono rialzato e sono andato avanti. Mia madre ha avuto conforto pure dalle sue amiche e ha dedicato tempo ad accudire i gatti. Li ama come Sarah che curava pure un cane meticcio nel quartiere. Papà, invece, si è rituffato nel lavoro di muratore. Non c’è giorno che non pensiamo a lei».
Che rapporto aveva con lei?
«Avevo dieci anni in più ma, man mano che lei cresceva, il nostro rapporto diventava sempre più stretto. Si confidava e la capivo anche nei suoi silenzi. Riuscivo a farla ragionare se sbagliava e la supportavo quando serviva. Era solare, amava stare in compagnia. Andava bene a scuola e aveva tanti sogni».
Cosa sognava Sarah?
«Frequentava l’istituto alberghiero e sognava di viaggiare. Quando era al primo anno, io emigrai a Stoccolma e le promisi che se si fosse diplomata poteva raggiungermi perché c’erano ristoranti di alto livello dove fare esperienza. L’dea la stimolava: mi chiese come premio una vacanza in Svezia se fosse stata promossa al terzo anno. Voleva capire com’era vivere lì. Era propositiva. Chiese pure al pub del paese se, l’estate successiva, avrebbe potuto lavorare».
L’ultimo vostro abbraccio?
«A casa, tre giorni prima che fosse uccisa. Ci salutammo così perché dovevo tornare a lavoro a Milano. Poi la mamma mi accompagnò in stazione. Le detti dei soldi per comprarle delle sneaker che tanto desiderava. Purtroppo non le ha potute indossare».
Lei cosa fa oggi?
«Non sono stato fortunato nella vita ma ho cercato sempre di dare il massimo per mettermi quanto meno in pari con chi lo è stato. Ho vinto un concorso e lavoro come autista in una municipalizzata di Legnano. Contemporaneamente ho conseguito una laurea triennale in Ingegneria e, ora, mi mancano quattro materie per la magistrale. È dura ma vedo il traguardo».