Corriere della Sera, 21 gennaio 2024
Se lo Stato vende di nuovo
Il verbo privatizzare, comparso prepotentemente sulla scena italiana negli anni Novanta, lasciava trasparire l’inizio di un nuovo mondo dell’economia. Ci si credette, un po’ ingenuamente. Giuliano Amato, il cui primo governo nel 1992 trasformò gli enti pubblici in società per azioni, disse in un’intervista che si sarebbero creati altri gruppi industriali al pari dell’impero Agnelli, allora dominante. Ma fu proprio la galassia torinese a mostrarsi timida quando sul mercato nel 1997 andò la Telecom – oggi lo spettro di quella che fu quando la proprietà era pubblica, attraverso la Stet – lasciando poi via libera ai francesi per la parte energia di Montedison. Le vendite di Stato non hanno, alla fine, favorito la crescita di nuovi grandi protagonisti industriali. Sono state spesso occasioni di lucrose operazioni finanziarie. L’internazionalizzazione è riuscita a pochi. E, tra questi, ai contestati Benetton, lautamente estromessi, dopo la tragedia del ponte Morandi, dalle Autostrade in cui è rientrato – come peraltro nella rete di telecomunicazioni – il socio pubblico.
In un Paese povero di grandi imprese globali (nel frattempo Fiat è diventata Stellantis, di fatto francese) sarebbe interessante che il mondo dell’imprenditoria privata si interrogasse sulla qualità del proprio ruolo storico alla prova delle privatizzazioni. Per esempio sulla pervicace timidezza nel metterci capitali propri. Sull’ossessione del controllo familiare anche a scapito della crescita dimensionale.
L’ attrazione per gli ex monopoli pubblici fece in molti casi premio sulla volontà di affrontare la concorrenza globale. La prospettiva di un guadagno immediato si rivelò in diversi casi irresistibile per azionisti poco pazienti. La politica risultò spesso invadente ma trovò terreno fertile in chi aveva consuetudine a chiederne la protezione. E ciò frenò le necessarie liberalizzazioni dei mercati che non piacciono solo a tassisti e balneari.
Le privatizzazioni del credito, dalle banche d’interesse nazionale che appartenevano all’Iri (l’istituto pubblico chiuso nel 2000 dal secondo governo Amato) alle casse di risparmio, portarono invece alla creazione di grandi gruppi come Intesa Sanpaolo e Unicredit. Qualcosa di analogo, per dimensioni e capacità di crescita e innovazione, non è avvenuto nelle filiere dell’agroalimentare (dove lo Stato deteneva grandi marchi), del tessile abbigliamento, della moda, dell’arredamento e del design, nelle quali il made in Italy ha grande successo ma non ha leader indiscussi di mercato della taglia dei Nestlé, Danone, Lvmh, Kering e via di seguito.
Si è privatizzato troppo o male? Probabilmente sì e lo hanno scritto bene Pietro Modiano e Marco Onado nel loro recente Illusioni perdute (Il Mulino). Il titolo dice tutto. Anche perché ci si dimenticò che le privatizzazioni furono una scelta obbligata. Un po’ come lo è oggi nella coda del fenomeno. Non sgorgarono da uno spirito liberale di convinta adesione alle regole di mercato. Avvennero in fretta sotto il peso insopportabile del debito pubblico (di cui l’Unione europea chiedeva la riduzione, insieme allo stop agli aiuti di Stato, con l’accordo Andreatta-Van Miert del 1993) e di quello delle imprese statali. Lo Stato imprenditore, tutt’altro che efficiente, complice la feroce lottizzazione dei partiti, aveva accumulato un’esposizione insostenibile con fondi di dotazione pagati da tutti i contribuenti. Sull’Iri nel 1993 gravava un’esposizione consolidata di oltre 70 mila miliardi di lire, a fronte della quale vi erano, però, rilevanti attività. Perfino l’Eni, cui era stata scaricata la chimica di tanti salvataggi privati, arrivò a perdere. Per non parlare dell’Efim (1962-1992), di cui nessuno ormai ha memoria. Il contenzioso intorno alle garanzie pubbliche sui debiti della conglomerata pubblica (18 mila miliardi di lire) produsse la prima grave perdita di fiducia sui titoli di Stato che vennero declassati. La liquidazione terminò nel 2007 al costo di 5 miliardi di euro. Si credette anche, con un tasso di infantile esterofilia, che il modello della public company, con tanti azionisti, fosse vincente. Il potere dei manager davanti a una pluralità di azionisti, trovò un altro modo per affermarsi nel tempo.
Le privatizzazioni migliori furono quelle in cui lo Stato fece un passo indietro, nell’Eni, nell’Enel, Terna, Snam, Leonardo, Fincantieri, sufficiente per non perdere il controllo aprendosi alle logiche del mercato che hanno frenato per fortuna istinti lottizzatori mai sopiti.
Trent’anni dopo il governo è costretto, a una nuova stagione di privatizzazioni con quel che rimane. E non è poco. Quote dell’Eni per esempio, delle Poste o delle Ferrovie (più complicato). Il ministero dell’Economia ha appena diminuito, con successo, la propria partecipazione nel Monte dei Paschi ma si trova, su tutt’altro versante, a mettere in conto la nazionalizzazione temporanea delle Acciaierie d’Italia. Il cui costo (anche legale l’Efim insegna) è del tutto imprevedibile. E pensare che la siderurgia sembrava quella più facile da privatizzare per creare un grande gruppo italiano ed europeo. Gli indiani e i russi, ai quali si è venduto di tutto, all’epoca nemmeno si conoscevano.