la Repubblica, 20 gennaio 2024
Intervista a Steve McCurry
C’è devozione negli occhi di Steve McCurry quando cerca umanità e senso in uno scatto, l’istante piccolo che dà voce. Uno dei più importanti fotografi al mondo, l’autore di quella Gioconda che è Ragazza Afghana, uno sguardo che ancora ci trafigge con la sua fierezza indomabile dopo quasi quarant’anni, ha deciso di intitolare proprio così, Devotion (Mondadori Electa) il suo ultimo libro, 150 immagini per raccontare, appunto, l’essere umano quando si dedica a qualcosa o a qualcuno. «Non per dovere, ma per amore», ci spiega lui in una telefonata un po’ ballerina dalla Birmania, dove McCurry, americano, 73 anni, è in viaggio per prestarci ancora una volta i suoi occhi.
Steve, cosa intende per devozione?
«Qualcosa che è legato al dare un senso alla vita. Può essere quella dei genitori verso i figli, oppure restare vicini a un compagno che soffre, o ancora battersi per la natura e gli animali, oppure la preghiera, lo studio. Per me, un esempio perfetto di devozione resta Gino Strada: poteva fare comodamente il medico a Milano, invece ha girato il mondo per curare i più deboli».
Partecipa alla conversazioneCosa ne pensi? Esprimi ora la tua opinioneLEGGI I COMMENTIDunque, la devozione comincia da un’idea.
«Sì, ma se non si fa azione è sterile, puramente teorica. Non basta avere una causa nobile, bisogna metterci le mani. Mio padre dedicò gli ultimi anni della vita a sua moglie malata, così mi insegnò la devozione: una forma di amore che resiste al tempo. Ho sempre avuto una visione positiva del mondo e delle persone, anche fotografando le guerre e la miseria, e continuo ad averla».
Come si ferma l’attimo perfetto?
«Con istinto, intuito, fortuna, tenacia e pazienza: questo serve. La tecnica viene dopo. Una buona fotografia non può fare a meno della psicologia, bisogna essere empatici con il soggetto che si accosta, se possibile rendendo quasi invisibile la nostra macchina fotografica. Così, senza fretta, verrà fuori l’anima. Esistono fotografi devoti agli ultimi della Terra, quelli che non hanno voce: mi sforzo di essere uno di loro».
Steve McCurry, Un ragazzino con la mucca di famiglia, Kathmandu, Nepal, 2013 © Steve McCurry
Quanto deve a Sharbat Gula, la famosa ragazza afghana che lei ritrasse nel 1985 per National Geographic?
«Moltissimo. Quella fotografia funziona perché evoca, mostrando la dignità umana di una persona rifugiata e povera, ma non sconfitta, non svuotata di speranza. Una figura potente nel suo intimo. Inoltre, sono felice di averla aiutata a trasferirsi in Italia perché trovasse un futuro migliore. Adesso vive a Roma, ci sentiamo ancora».
La nuova vita di Sharbat Gula, la “ragazza afghana” di Steve McCurry: “Ricomincio dall’Italia"dalla nostra inviata Francesca Caferri29 Dicembre 2022
In questo presente digitale, scattiamo fotografie di continuo con i nostri strumenti elettronici. Cosa ne pensa?
«Tutto il bene possibile. Mi dico che senza questi fotografi occasionali ma presenti, la testimonianza su quanto accade, ad esempio, in Ucraina o a Gaza sarebbe assai meno efficace. Scattiamo fotografie per tracciare le nostre vite e quelle degli altri».
E della mania dei “selfie” cosa pensa? Facciamo autoritratti di continuo, pur non essendo Leonardo o Van Gogh.
«Abbiamo bisogno di fermare nel tempo la memoria di noi stessi. È divertente scattare selfie tra amici, e poi riguardarli dopo qualche anno per ricordare quanto fossimo diversi, per scrutare tutti quei nostri “noi”, se possibile in serenità. Mi fanno un po’ ridere, questo sì, i bastoncini per i selfie. Fotografare di continuo è bello, purché non si smetta di vivere: la smania di fissare il momento non può sottrarci il gusto di viverlo, che è irripetibile».
Steve McCurry, Monaci in pellegrinaggio alla Roccia d’oro, Kyaiktiyo, Myanmar © Steve McCurry
Visto che stiamo parlando di tecnologia, come giudica l’intelligenza artificiale?
«Permette di creare immagini di qualunque cosa, ma dovremo imparare a distinguere il vero dal falso. Oggi ci fidiamo ancora degli autori, in futuro saremo più scettici nei confronti di chi fotografa o scrive».
Lei è stato dato per morto due volte, ha vissuto pericolose battaglie, è stato picchiato e arrestato ed è scampato a un incidente aereo. Cosa rappresentano, per un fotografo, le situazioni estreme?
«Mettono alla prova la nostra umanità, e io faccio un lavoro che di umanità si nutre. Nell’intensità troviamo molte ragioni di esistere».
In questo suo ultimo libro c’è qualche immagine a cui si sente più affezionato?
«La coppia di anziani che camminano insieme. Il neonato prematuro che sorride, sfoderando la sua fortissima volontà di vita. L’anziano che prega in una chiesa in Brasile, del tutto incurante di me che lo sto fotografando. La ragazza africana col quaderno, la sua espressione mentre sta imparando una cosa che forse la cambierà per sempre, o forse no».
Cosa non può mai mancare nello zaino, ora che non ci sono più i rullini?
«Direi amore, compassione e gentilezza. Come spiegavo, la mia fotografia cerca di parlare del modo in cui siamo umani».
Prova a raccontarci cosa c’è dentro i suoi occhi?
«Per prima cosa, il desiderio di conoscere il mondo: restiamo sulla Terra per un istante o poco più, e dobbiamo provare a colmarlo di senso e curiosità. Spero che i miei occhi contengano la gioia del viaggiatore, senza la quale non avrei potuto scattare nemmeno una foto. Ma ancora di più contano l’empatia verso il prossimo, il tentativo di raccontare vite e storie: questo, alla fine, è il fotografo. Ho la presunzione di pensare che la nostra devozione verso qualcosa, compreso un mestiere, possa rendere il mondo un posto migliore. Fu la curiosità a spingermi ad affrontare il primo viaggio in India, per capire come laggiù potessero coesistere tante religioni diverse».
La sua devozione nel fotografare si può definire una vocazione?
«Oh, assolutamente sì. Avevo dodici anni quando vidi le foto dei monsoni, anche in quel caso in India, e restai affascinato dalla forza dei venti, della pioggia e delle inondazioni: decisi che anch’io, un giorno, ci sarei andato. La potenza della fotografia mi ha raggiunto molto presto».
A cosa è devoto, Steve McCurry?
«Alla mia forma di narrazione, ai diritti delle persone e degli animali, ma più di tutto a mia figlia Lucia, che ha sette anni e ha totalmente cambiato la mia vita. Sono devoto a lei, al suo futuro, al desiderio che stia bene, che venga istruita come si deve, ma soprattutto che sia amata».