La Stampa, 19 gennaio 2024
Intervista a Gabriele Lavia
Michela tamburrino
Se dici a Gabriele Lavia che dimostra vent’anni di meno degli 82 dichiarati, lui al massimo risponde: «Però mi fanno male le ginocchia». Intanto è un bene che si ricordi l’età visto che da sempre è abituato a non festeggiarsi e poi troppo non si può pretendere anche perché, se ha dei dolori alle ossa, dipenderà pure da come si muove in scena, salta, rotola, si picchia, si rialza per poi ricadere e tutto ai piedi del pubblico che lui ha messo sul palco. Senza spartito, inventa le note come ha sempre fatto. Magari da giovane le gridava in faccia agli attori, ora si è fatto più quieto e non grida più, almeno a suo dire. Torna, Gabriele Lavia, nella sua città d’elezione, Torino e nel teatro più amato, il Carignano, con Un curioso accidente una commedia poco conosciuta di Carlo Goldoni. Un testo che ha vari livelli di lettura, un’esilarante commedia degli equivoci che in profondità scarnifica uno dei temi centrali della scrittura goldoniana, il rapporto tra il vero e il verosimile.
Lavia perché Torino è così tanto nel suo cuore?
«Perché a Torino ho deciso di fare l’attore. Perché a Torino ho diretto il Teatro Stabile, perché due dei miei fratelli vivono lì e perché lì ho deciso di partire per l’Accademia Drammatica e lì ho iniziato ad andare a teatro. Tutte le sere al Carignano, vedevo gli stessi spettacoli a ripetizione, i miei genitori erano molto preoccupati. In sala eravamo due o tre spettatori e io ammiravo questi attori che nonostante le assenze recitavano con passione».
Uno spettacolo che la colse sulla via di Damasco?
«L’albergo dei poveri di Giorgio Strehler che poi era Nel fondo di Maksim Gor’kij. Io ero nel palco reale, estasiato. Intorno a me il vuoto, non c’era alcuno a vedere questo spettacolo meraviglioso che segnava l’uscita di Strehler dal Piccolo di Milano. Dopo con Strehler ho lavorato in Re Lear».
Oggi fortunatamente un forno così non ci sarebbe più. Ma torniamo a Goldoni. Come mai è sempre attuale?
«Bisognerebbe mettersi d’accordo sul significato d’attualità, parola complessa che significa energia, noi la usiamo in maniera sbagliata. In questo tempo, vediamo attori di oggi che recitano testi di ieri, in un continuo rinnovarsi del passato. Dal dopoguerra ad oggi accade questo, difficile vedere novità scritte in contemporanea con la messa in scena. Ci vorrà tempo ma passerà, come passerà il teatro di regia, lo spettacolo è diventato ciò che vede il regista».
Molti spettacoli oggi sono un ibrido, tra prosa, canto, danza, arte. Che ne pensa?
«Anche il mio è un pasticcio. Nel nostro Goldoni, attori che cantano, spiegano, costumi che ci sono e non ci sono, il pubblico in scena. Stiamo tutti cercando una strada, si prova. Quando diciamo “nuovo” dovremmo intendere tutto nuovo altrimenti se rappresenti un testo contemporaneo in modo vecchio, non funziona. Da noi, per dirla con Goldoni, lo spettacolo incontra».
Perché?
«Perché pone degli interrogativi. Piace al pubblico giovane che fortunatamente ha sempre risposto alle mie chiamate. L’illuminista Goldoni nel 1760 mette in scena una donna che prende la decisione di scrivere la sua vita. Lei sposa chi vuole e non chi vuole il padre; per l’epoca era uno scandalo. Perciò ambienta la vicenda, data per vera, raccontata a Goldoni in un caffè di piazza San Marco a Venezia, nella lontana Olanda, durante la guerra dei Sette Anni. Una piccola storia che cambia il mondo».
Una scelta audace?
«Goldoni, oltre ad essere un autore “impegnato” era soprattutto un autore femminista. Le sue protagoniste sono donne che stanno avanti, le sue locandiere, le donne vendicative, le buone mogli, tengono in mano le redini della storia. E il nostro intento era mettere in evidenza questo tratto».
Una storia crudele eppure esilarante, fatta di manipolazioni e disinformazione. Ci si è divertito?
«Mi è molto piaciuto mettere in scena questo specchio deformato e attuale dei vizi dell’uomo».
Protagonista è Federica Di Martino, sua moglie. Lei è abituato a recitare con le mogli, dunque non è una novità. Vi siete innamorati in scena?
«Vai a sapere come e perché ci si innamora, certo non potrei stare senza di lei, non sono capace di far nulla senza di lei. Ci siamo arresi al grande amore».
Il teatro è il suo luogo di conforto ma ha fatto anche cinema e televisione, dunque?
«Quando feci la tv, mio padre pensò che fossi arrivato. Non gli andava giù che facessi l’attore, ma quando i vicini gli fecero i complimenti perché mi avevano visto in tv, si tolse il cruccio».
Il cinema?
«Mi piace ma il teatro di più. Faccio teatro da quando avevo 20 anni. Con il cinema non ci siamo troppo incontrati».
Lei ha due figli attori. La figlia ha preso da mamma Monica Guerritore o da papà ?
«Da nessuno dei due, è troppo più brava di noi. È un talento assoluto e ha anche un pessimo carattere».
In questi tempi si muovono le carte del teatro, lei ha ricoperto anche ruoli istituzionali in passato. Che pensa di quanto sta accadendo?
«La politica ha sempre messo le mani sul teatro, c’è un’agitazione fortissima e posso dirlo visto che sono fuori dai giochi. Tutti vogliono dirigere un teatro, sento nomi, sento voci. Ma come sempre, dipenderà dalla raccomandazione più forte». —