La Stampa, 19 gennaio 2024
Intellettuali popstar
L’omogeneizzazione di cui gli intellettuali paventavano l’avvento, comunque, non si è verificata. Al contrario, il mercato della cultura sembra trarre profitto dalla diversità e dal rapido avvicendarsi delle mode. La scena culturale definita dalle forze del mercato evoca più un caleidoscopio di prodotti e modelli variegati e spesso reciprocamente esclusivi che non un’avvilente uniformità e standardizzazione. È proprio questa assenza di modelli privilegiati, non l’uniformità della “cultura media”, che si è rivelata la sfida più seria al ruolo tradizionale degli intellettuali e alla loro autorità un tempo indiscussa in materia di gusto e di scelte culturali. Le scelte sono state privatizzate, diventando un attributo della libertà e della formazione dell’identità personale. La promozione di un determinato modello culturale come essenzialmente migliore, o in qualche modo “superiore” rispetto alle alternative presenti o possibili, è stata aspramente condannata e sdegnosamente rifiutata come atto di oppressione. Con una svolta inaspettata il mercato è stato promosso al rango di principale sostegno della libertà. Il fondamento moderno del potere collettivo degli intellettuali è stato eroso: vi è ben scarsa richiesta ormai per le funzioni di cui essi sono andati orgogliosi per tutto il corso della storia moderna, quelle di legislatori culturali, di progettatori e tutori di modelli culturali adeguati. Ma il fatto che ai “progetti di vita” uniformati si siano sostituite le scelte del consumatore ha avuto anche un altro impatto negativo sul ruolo tradizionale degli intellettuali. A seguito della privatizzazione della formazione dell’identità personale, anche la frustrazione causata dal fallimento dei propri sforzi e la conseguente scontentezza tendono a essere “privatizzate”, disperse e non cumulabili, refrattarie a tutti i tentativi di conglomerarle in una “causa pubblica” unificante, e ancor più a quelli di indirizzarle verso una visione sociale alternativa. Chi si sforza di continuare a svolgere il ruolo intellettuale tradizionale si trova diviso tra innumerevoli partiti, cause, sette religiose eccetera. I diversi motivi di scontento non hanno alcun “denominatore comune”; a nessun singolo conflitto può essere ricondotta l’intera gamma di rivendicazioni e richieste. Le alleanze politiche che mirano all’appoggio della maggioranza possono configurarsi solo come “coalizioni temporanee” che hanno scarse probabilità di sopravvivere al problema specifico che per un breve momento le ha fatte nascere. Cosa ancora più importante, i motivi di scontento determinati dal mercato, se elaborati entro i canali di un’esistenza privatizzata, provocano un’ulteriore domanda di servizi offerti dal mercato e rafforzano anziché minare l’influenza di quest’ultimo sulla sfera sociale e su quella culturale.
La fama è stata rimpiazzata dalla notorietà: non un ponderato riconoscimento per i risultati conseguiti, il ripagamento di un debito per i servizi resi alla causa pubblica, ma il fatto di imporsi con ogni mezzo a disposizione all’attenzione del pubblico. Se gli intellettuali annoveravano sé stessi tra la minoranza scelta che poteva rivendicare uno speciale diritto alla fama, essi non possono rivendicare alcun diritto privilegiato alla notorietà. Al contrario le tradizionali attività degli intellettuali – principale causa della loro gloria passata – non si prestano a essere esibite davanti agli occhi del pubblico né a riscuotere un applauso immediato. Quando la notorietà anziché la fama diventa il criterio dell’influenza pubblica, gli intellettuali si trovano in competizione con i campioni sportivi, le pop star, i vincitori di lotterie, i terroristi e i serial killer. In questa competizione non hanno molte speranze di vincere, ma per gareggiare devono giocare il gioco della notorietà seguendone le regole, ossia adeguando la propria attività al principio di «massimo impatto e di obsolescenza istantanea». La giustezza o la verità delle idee sono sempre più irrilevanti come richiamo nei confronti dell’attenzione pubblica; ciò che conta sono le loro ripercussioni, la quantità di tempo e di spazio che a esse dedicano i media, e ciò dipende principalmente dal loro “valore di intrattenimento”. È probabile che la gloria di cui godevano un tempo gli intellettuali fosse legata ad altri fattori – ora in gran parte scomparsi – caratteristici dell’età moderna: le grandi utopie di una società perfetta, i progetti di una ingegneria sociale globale, la ricerca di criteri di verità, giustizia e bellezza universali, nonché la presenza di poteri istituzionali con aspirazioni ecumeniche che avevano la volontà e la capacità di agire in base a tali criteri. L’elevata posizione degli intellettuali in quanto artefici e arbitri del progresso storico nonché tutori della coscienza collettiva di una società che si autoperfeziona non poteva sopravvivere alla fede nel progresso e alla privatizzazione del processo di autoperfezionamento (questa, secondo alcuni autori, è la ragione per cui gli intellettuali non hanno mai goduto di un prestigio sociale di tipo europeo nell’atmosfera del “sogno americano”, che rappresenta il progresso come un’impresa e un risultato privati più che sociali). Gli intellettuali hanno poco da offrire alla “maggioranza soddisfatta” dei Paesi ricchi, a meno che non si lascino fagocitare dalla “scena culturale” commercializzata offrendo le proprie idee come un prodotto fra i tanti nel sovraffollato supermercato dei prodotti culturali. Indubbiamente essi hanno perso il loro ruolo di legislatori della cultura, tutt’al più resta loro la speranza di rendere indispensabile la nuova funzione di interpreti culturali, di mediatori nell’attuale scambio tra stili culturali autonomi, differenziati ma equivalenti. Il crollo dell’alternativa comunista alla società dei consumi ha inferto un ulteriore colpo alla posizione di cui godevano gli intellettuali come arbitri di una scelta reale e tangibile tra modelli sociali alternativi.
Alcuni autori, in particolare Michel Maffesoli, hanno osservato a questo proposito il riaffermarsi di una sorta di “tribalismo”, di un nuovo interesse per la delineazione di confini, per la separazione, per l’esclusione degli “altri”, il tutto finalizzato alla creazione e alla difesa di una fragile identità di gruppo. Nel caso di queste “neotribù” sono richieste prestazioni analoghe a quelle già fornite dagli intellettuali (sebbene sotto differenti bandiere e all’interno di un diverso discorso) all’epoca della costituzione degli Stati nazionali e della ricerca di principi universali. L’analogia deriva dal fatto che gli interessi trascurati dei gruppi emarginati hanno una possibilità di essere affermati e presi in considerazione solo se le rivendicazioni specifiche vengono rielaborate in forma di istanza critica nei confronti dell’ordine sociopolitico esistente nel suo complesso. Il mutamento osservato da più parti nella filosofia e nella sociologia contemporanee – che ora mettono l’accento sulle origini “locali” della conoscenza e dei modelli culturali e attribuiscono una funzione positiva, anziché considerarla una limitazione, alla dimensione particolaristica, legata a un determinato gruppo, della visione del mondo e dei modelli culturali in generale – può essere interpretato come un riflesso di questi nuovi sviluppi. Sempre più spesso i filosofi e i sociologi esaltano il valore di quelle stesse tradizioni locali e di quel “radicamento” nelle singole comunità che i loro predecessori deprecavano auspicandone l’estinzione in quanto d’ostacolo alla progressiva acquisizione di una verità, di un’etica e di un’estetica universali e condivise da tutta l’umanità. La teorizzazione della permanenza e del carattere positivo della differenziazione culturale è uno dei tratti più significativi dell’autocoscienza postmoderna delle professioni intellettuali nei paesi ricchi del mondo. —