il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2024
Il golpe per soffocare il Pci
“Dobbiamo partire dalla constatazione che il Pci opera contro la democrazia servendosi dell’appoggio di una potenza straniera. Se si accetta questa impostazione, ogni provvedimento diventa possibile”. Mario Scelba, nel 1954, era presidente del Consiglio e stava riorganizzando la macchina repressiva dello Stato. Non era per lui pratica inedita: da ministro dell’Interno, al netto della “gestione” politica della strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947, all’indomani delle elezioni politiche del 18 aprile 1948 aveva ordinato la restituzione alle forze dell’ordine di armi distribuite nel Nord-Est, dove civili e militari erano stati allertati per entrare in azione nel caso i risultati elettorali non fossero stati favorevoli allo schieramento atlantista imperniato sulla Dc contro il fronte popolare Pci-Psi.
Sono eventi, questi, che rappresentano solo un sintomo di un fenomeno che iniziò a manifestarsi fin dalla seconda metà del 1943. A conflitto ancora in corso, infatti, la sindrome anticomunista iniziò ad aggirarsi per l’Europa Occidentale e infestò soprattutto i palazzi del potere italiano, le correnti più irriducibili dei partiti dell’arco parlamentare e i meandri che mal avevano sopportato la sconfitta del nazi-fascismo. Quella sindrome generò e nutrì uno strumento di pressione – e di ricatto – che per mezzo secolo è stato il vero “convitato di pietra” della politica italiana: il colpo di Stato. Insieme agli accadimenti più noti (Piano Solo, Golpe Borghese, Rosa dei Venti e Golpe Bianco), i tentativi di eversione della Repubblica antifascista sono stati una decina. Nessuno, o quasi, era destinato ad arrivare a piena conclusione, perché la loro riuscita non era l’obiettivo principale. Più funzionale era il condizionamento della politica nazionale.
Un esempio? In pochi ricordano che nel giugno 1960 al colonnello Renzo Rocca, famigerato direttore dell’Ufficio Rei (Ricerche economiche ed industriali) del Sifar, venne riferito che sarebbe esistito un “comitato che aveva lo scopo di rapire l’on. Gronchi e fare un colpo di Stato”. Giovanni Gronchi, da cinque anni, era presidente della Repubblica e, una volta nelle mani dei suoi carcerieri, avrebbe dovuto essere “enucleato” in Corsica. La voce – o, meglio, la soffiata – venne liquidata come inattendibile, nonostante conferme giunte da altre fonti. Ma per il generale Giovanni De Lorenzo, allora direttore del Servizio informazioni forze armate e futuro protagonista del Piano Solo, le mosse del governo Tambroni – sostenuto dal Movimento Sociale Italiano – avevano generato “una certa psicosi” che, “caduto il governo, cessò”. Nella seconda metà di luglio, in effetti, Tambroni si era dovuto dimettere dopo i fatti di Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, contro la convocazione nel capoluogo ligure del sesto congresso del Msi, che aveva scatenato la rivolta e la conseguente repressione. Tragico il bilancio: una vittima a Licata (Agrigento), cinque a Reggio Emilia e altre tra Palermo e Catania.
A contribuire a questo clima non furono estranee le formazioni neofasciste che hanno attraversato il dopoguerra legandosi alle stragi della strategia della tensione: in primis Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, che intrecciarono la loro storia con quella del Fronte Nazionale del principe Junio Valerio Borghese, comandante della X Flottiglia Mas e leader del tentato golpe del dicembre 1970. Già negli anni Cinquanta le due organizzazioni manifestavano la “pretesa di rappresentare fedelmente l’essenza del fascismo attraverso l’esaltazione paganeggiante del superuomo, della élite rivoluzionaria, della gerarchia, dell’antidemocrazia e del razzismo”. E nel 1965, nel corso del convegno sulla guerra rivoluzionaria organizzato dall’Istituto Alberto Pollio, dalle loro file non si faceva mistero che “la fase conclusiva ha per oggetto il colpo di Stato o il passaggio all’azione armata, cioè al terrorismo e alla guerriglia”.
Infine non va dimenticata la P2 di Licio Gelli, fondamentale, a metà degli anni Settanta, a far virare le pulsioni “d’ordine” da ambiti militari verso gli ambienti istituzionali con un’indefessa opera di reclutamento e infiltrazione. Tramontata l’esperienza piduista, tuttavia, non si persero le tracce di quei nomi e di quelle sigle, che riemersero negli anni Novanta tra leghismo meridionale e stragi. “Chi si nasconda dietro la maschera dei seminatori di morte sono ‘quelli di prima’, la vecchia oligarchia decisa a opporre resistenza al cambiamento”, considerarono all’ambasciata statunitense a Roma.