il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2024
Il delitto Matteotti
Mentre l’intera politica italiana era attraversata – a due giorni dalla incomprensibile scomparsa (il 10 giugno 1924) del giovane leader dei socialisti – da chiacchiericci, funeree previsioni, pettegolezzi, drammi privati e voci di ogni tipo che avevano al centro il nome “Matteotti”, l’Italia ufficiale, quella delle istituzioni politiche, della magistratura e della polizia, ufficialmente taceva.
Il primo a fare il punto del misterioso evento, con un comunicato ufficiale peraltro non pubblico, ma inviato riservatamente ai sommi vertici della magistratura, fu il Questore (reggente) di Roma, Epifanio Pennetta. Costui, che fino ad allora non aveva ritenuto di immischiarsi né di aprire una formale indagine criminale, così si rivolse rispettosamente all’“Illustrissimo Procuratore del Re” con una lettera datata martedì 12 giugno 1924, in cui era stato annotato a matita “Ore 17”. Diceva la lettera, miracolosamente oggi conservata negli Archivi (anche se piena, come si capì poi, di imprecisioni): “Verso le venti di iersera questo ufficio fu informato dall’on. Modigliani (Giuseppe Emanuele Modigliani era il portavoce del parlamentari socialisti, ndr) che dalle ore 16 del 10 corrente si era assentato da casa senza dare più notizie, l’On. Matteotti Giacomo, qui abitante in via Giovanni Pisanelli n. 40 (Quartiere Flaminio). Successivamente l’on. Modigliani avvertiva per telefono la Questura che il di lui segretario aveva visto l’On. Matteotti alle 19.15 del dieci corrente attraversare la piazza Campo Marzio nei pressi del caffè del Napoletano. In seguito ad indagini eseguite da questo ufficio è risultato che, alle ore 16, del dieci corrente, al Lungotevere Arnaldo da Brescia, nei pressi del villino Almagià, cinque individui avevano sollevato e caricato su di una automobile un uomo, che si divincolava e chiedeva aiuto: Ciò farebbe ritenere che si possa trattare dell’On. Matteotti e che sia inesatta la circostanza riferita dal segretario dell’On. Modigliani. Continuano le indagini in proposito e mi riservo ulteriori comunicazioni”.
p. Il Prefetto reggente la Questura, Epifanio Pennetta.
Giacomo Matteotti era noto come un tipo combattivo, che tuttavia non amava fare la vittima. Pochi giorni prima della sua misteriosa scomparsa in quei giorni di giugno aveva pronunciato, il 30 maggio a Montecitorio, un durissimo discorso contro le “prepotenze” di Mussolini, ricevendo in cambio una raffica di insulti da parte della imbestialita stampa fascista. Ai suoi compagni, che gli chiedevano una immediata pubblica replica (oppure, all’opposto, un po’ più di cautela) aveva risposto schermendosi, e sorridendo: “Grazie. Ma adesso per favore preparatemi l’elogio funebre”.
Tuttavia, dalle analisi degli storici emerge, su quei giorni cruciali, un quadro certo drammatico ma – secondo la valutazione di alcuni – ancora aperto a una possibile battaglia politico-parlamentare. Secondo un osservatore il delitto Matteotti costituì, anche per questo, un terrificante punto di svolta: “L’assassinio brutale aprì gli occhi alla maggioranza degli italiani, che arretrò, non tanto commossa dal misfatto, quanto attonita e sgomenta” (La Rivista d’Italia, cit. da Renzo De Felice).
Questo clima spiega forse anche l’incomprensibile atmosfera di attesa, da parte di alcuni fra i più popolari cervelli in campo a sinistra, in quei giorni tragici e convulsi: “La successione è aperta”, si spinse a prevedere a un certo punto Filippo Turati, pronosticando una vincente svolta anti-mussoliniana nell’opinione pubblica e persino nelle alte sfere parlamentari, economiche e politiche (re compreso).
Giacomo Matteotti era un ragazzone di 39 anni. La sua cattura non era stata una cosa semplice, anche se la banda degli assassini – tutti poi identificati –, radunati dal fascismo per compiere il colpo era stata scelta tra i picchiatori neri più forti e spietati. I banditi furono descritti e più tardi riconosciuti da un gruppetto di ragazzi di nove-dieci anni. Il primo testimone era stato tuttavia un abitante della zona tra la via Flaminia e il lungotevere, fuori Porta del Popolo. Era un posto generalmente deserto, che il deputato attraversava quando, d’estate, si proponeva di raggiungere Montecitorio a piedi.
Quel martedì 10 giugno “alle 15.55 precise”, il testimone trentenne Eliseo De Leo, dopo essere risalito sulla scalinata che portava al lungotevere Arnaldo da Brescia, aveva visto accanto a un’automobile “quattro giovani vestiti di chiaro, dei quali uno aveva un paio di pantaloni rigato”, i quali sostenevano “due per la testa e due per i piedi, un individuo vestito di chiaro che gridava aiuto”. Prima di scaraventarlo a forza dentro l’auto, uno dei quattro gli aveva assestato “due pugni nel basso ventre”. Poi la macchina “a tutta velocità” si era “diretta a Ponte Molle” (cioè verso Ponte Milvio). Uno degli aggressori, che non era entrato nell’abitacolo, era restato a fare la guardia sul predellino destro. La scena fu confermata da uno degli inquilini delle case sul lungofiume. Raccontò: “Ho visto, all’angolo tra il Lungotevere e via Stanislao Mancini… cinque uomini che sorreggevano orizzontalmente un individuo mezzo scamiciato, che mi pare fosse vestito di grigio e che tentava di divincolarsi, gridando aiuto”.
Ma il racconto più dettagliato, evidentemente risistemato dai poliziotti in italiano-burocratese, fu quello di due ragazzini – Mascagni Amilcare e Barzotti Renato – dinanzi agli agenti del commissariato di PS di Flaminio:
“Martedì 10 corr. Verso le 17 circa ci trovavamo entrambi a Lungo Tevere Arnaldo da Brescia a giocare. Vedemmo una automobile Lancia chiusa, verniciata scura, ferma a via Antonio Scialoia angolo Lungo Tevere, dalla quale poco prima erano scesi cinque individui.
Noi ci avvicinammo alla macchina, ma essi con tono brusco ci imposero di allontanarci. Poco dopo vedemmo venire verso Lungo Tevere, sbucando dalla via Mancini, l’On. Matteotti che noi abitanti conoscevamo di vista. Allora i due che erano fermi insieme gli saltarono addosso, cercando di trattenerlo, ma l’On.le si divincolò dalla stretta buttandone uno a terra. Sopraggiunse allora un altro vestito di grigio, robusto, alto, elegante, che gli diede un pugno in faccia facendolo andare a terra e contemporaneamente accorsero gli altri due che sollevandolo sulle braccia lo misero dentro l’automobile che era ferma. Mentre ciò facevano, dato che l’On.le si dibatteva e gridava aiuto, uno dei tre vestito di scuro, piuttosto grasso e basso gli assestò un altro pugno sulla pancia…
Letto confermato e sottoscritto… Mascagna Amilcare, Barzotti Renato”.
Ma il contributo più notevole all’inchiesta su rapimento e morte di Matteotti i due ragazzini lo diedero fuori verbale, descrivendo così bene la lussuosa macchina del delitto (una splendida Lancia Lambda Limousine, con guida a destra) che i poliziotti non fecero nessuna fatica a rintracciarla anche grazie a un portiere della zona, il quale si era preso cura di segnarsi su un foglietto il numero di targa di quella meraviglia: “55.12169”.
Questo era dunque il numero che portava ai rapitori – e naturalmente agli assassini – del povero Giacomo Matteotti. Ora bisognava individuare gli esecutori materiali e i mandanti politici del delitto.
E bisognava arrestarli, processarli, condannarli, imprigionarli.
(2 – continua)