il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2024
Il memoir di Bertolucci
Anticipiamo stralci di “Scene madri”, il memoir di Bernardo Bertolucci con Enzo Ungari, in libreria con Cue Press.
Vorrei poter parlare di cinema senza paura di raccontare aneddoti, usando molto la prima persona, senza vergogna e con molto affetto per qualche nonsense a cui sono affezionato. So che la cosa può risultare oltraggiosa, perché in Italia il desiderio segreto ma evidente dei critici è un regista muto, che faccia film e se ne stia zitto. Personalmente trovo appassionanti le riflessioni dei cineasti sul proprio lavoro, così primarie a volte da sfiorare il sublime, così magnificamente riduttive, deliranti o imbarazzanti da far arrossire, ma così complementari ai film, parole liquide che risciacquano i corpi dei film. Per me, comunque, il cinema è questione di vita o di morte.
Giorni fa io e mia moglie siamo andati al cinema, a vedere un vecchio Hitchcock, Murder! (1930). Improvvisamente mi sono ricordato che Herbert Marshall, il protagonista, era morto e che anche la maggior parte degli attori del film probabilmente non ci sono più. Vedo vecchi film molto più spesso che non film nuovi, ma non avevo mai provato questa emozione così disarmante. Forse è stata l’eleganza di Marshall, lo spleen del suo stile, la sua andatura lievemente claudicante, a farmi questo effetto. Murder! parla di un delitto miracolosamente in bilico tra uno spettacolo teatrale e quello che avviene dietro le quinte, ma a me parlava soprattutto dello scandalo del cinema che sottrae la vita al suo scorrere. Bazin scrive che il cinema è come l’arte egizia dell’imbalsamazione, Cocteau lo chiama “la morte al lavoro”. Sono modi diversi di alludere a quell’imbarazzante segreto che tutti i cineasti conoscono benissimo: un piano-sequenza è un pezzo di vita, che fingendo di informare lo spettatore lo interroga per manipolarlo meglio, lo invade e lo rende complice e correo di un crimine…
Ho sempre desiderato incontrare una donna in un appartamento deserto, che non si sa a chi appartiene, e fare l’amore con lei senza sapere chi è, e ripetere questo incontro all’infinito, continuando a non sapere niente. Ultimo tango è lo sviluppo di questa ossessione molto personale (e forse banale). La sceneggiatura era costruita nei minimi dettagli. Soltanto a partire da una costruzione estremamente elaborata posso abbandonarmi all’improvvisazione. Ultimo tango in fondo è un film completamente hollywoodiano, è cinema-verità ricco. Poco dopo l’inizio delle riprese, se dovevo parlare dei due personaggi, non dicevo più Paul e Jeanne, dicevo Marlon (Brando, ndr) e Maria ( Schneider, ndr). Il contributo che hanno dato al film è stato enorme, incalcolabile, perché non sono stati loro ad aderire ai personaggi, sono stati i personaggi a diventare loro… Nel corso delle riprese, Marlon e Maria si sono sostituiti ai personaggi scritti sulla pagina, ne hanno integralmente preso il posto. Quando Marlon racconta la sua infanzia, è la sua vera infanzia, con sua madre sempre ubriaca, e l’ombra di un padre virile e violento, in qualche posto nel Nebraska.
Brando, fin dall’inizio, si è reso conto che aveva la possibilità di abbandonarsi e di andare al di là di quello che gli veniva solitamente richiesto, e che lui sa ripetere così bene: la lezione dell’Actors’ Studio. All’Actors’ Studio aveva imparato a sentirsi un altro, a diventare un uccello o un albero, e quello che il cinema di solito chiede a un attore è proprio di entrare nella pelle di un altro. Io invece gli ho chiesto di portare dentro il film tutta la sua esperienza, tutto il suo vissuto di uomo e di attore. Diventare Paul non doveva significare smettere di essere Brando. E quando mi sono reso conto che capiva, ho chiesto a Paul di essere Marlon, e non viceversa. Alla fine del film mi ha detto più o meno: “Non farò mai più un altro film come questo. Non mi piace fare l’attore ma questa volta è stato peggio. Mi sono sentito violentato dall’inizio alla fine, ogni giorno, in ogni momento. Ho sentito che tutta la mia vita, le mie cose più intime, i miei figli, tutto mi è stato strappato fuori”. Poche settimane dopo la fine delle riprese aveva riguadagnato i dieci chili che gli avevo fatto perdere. Non sono sicuro che abbia visto il film finito…
Brando all’inizio è un personaggio brutale e aggressivo, che subisce lentamente un processo di devirilizzazione, fino a farsi sodomizzare dalla ragazza. Così “mettere in scena” è “mettere in culo”, “prendere coscienza” è “prendere in culo”. Brando precipita indietro fino alla morte, a una morte che è una nascita paradossale. Quando giace morto sul balcone, la sua posizione è quella di un feto.