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 2024  gennaio 17 Mercoledì calendario

Biografia di Otar Iosseliani

Archivio14 Gennaio 2024Chiudi Con questo numero1Pagina12/13di 18Arricchimenti PERSONAGGIDomenica14 Gennaio 2024Dimensione caratterel’interprete dell’arte di trasfigurareRicordo di Otar IosselianiCarlo Ossola  
Con Otar Iosseliani (2 febbraio 1934, Tbilisi, Georgia – ivi 17 dicembre 2023) scompare l’ultimo interprete dell’arte di trasfigurare: nei suoi film il dettaglio insignificante, l’oggetto abbandonato risorge a icona. Il suo mondo delicato, ironico, nostalgico, di volti di ogni tempo e di nessuna patria, è ritmato dalle ore e dalle stagioni come un calendario liturgico della fatica e dell’inanità umana. Georgiano e parigino (vi prese dimora dal 1982), russo e italiano, ha portato nella sua arte le partiture di pianoforte e il sobrio rigore matematico dei suoi primi studi a Tbilisi e a Mosca; un ritmo danzante, coerente e anarchico, anima i suoi film: in un’intervista per «Quinlan», in occasione del festival di Locarno, 2015, e dell’uscita del suo Chant d’hiver, ribadirà che chi ha potere – nell’assurda “banalità del male” – è ripugnante (come nel suo Brigands. VII, 1996) e che il suo mondo è di clochards: «E tutti i miei amici, italiani, francesi, russi, georgiani, li rispetto perché sono anche il risultato della storia che c’è stata. Tutti derivano dai clochards». I suoi film, finché rimase in Georgia, furono spesso bloccati dalla censura sovietica: interrogato, del resto, sul perché il solo Lenin avesse un solenne mausoleo nella Piazza Rossa, egli rispondeva sorridente: «perché è colui del quale neppure la terra ha voluto [la spoglia]».
In due impegnate lezioni al Collège de France (12 e 19 novembre 2003) riconobbe che il suo modello – rispetto ad esegeti che lo vorrebbero allievo e erede di Buñuel e di Tati, pure presenti nei suoi film francesi – era Miracolo a Milano di Zavattini – De Sica (1951); come in quell’antesignano [ove il protagonista raccoglie i margini sbandati della società in una baraccopoli lungo la massicciata di una ferrovia, ottenendo da due angeli la facoltà di compiere miracoli per ventiquattr’ore; per poi librarsi, a cavallo di una scopa, in volo «verso un regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno»], e come nel Kübelreiter [Il cavaliere del secchio] di Kafka, anche in Iosseliani l’arte è trasfigurazione e anelito che redime. Si ricordino le squisite parabole di Acquarello (1958) e Aprile (1961) o il perfetto circolo di “opere e giorni” in Un petit monastère en Toscane, 1988.
Nel 2004 fu a Torino per rendere omaggio a Luciano Emmer (1918 – 2009); similmente all’autore del Dramma di Cristo, 1948, sugli affreschi di Giotto agli Scrovegni, e dell’Invenzione della croce, 1949, su Piero della Francesca, anche Iosseliani lascia parlare le immagini; dirà ancora, nell’intervista citata: «Se uno può chiudere gli occhi e capire tutto dai dialoghi, allora tanto vale non avere l’immagine». Egli infatti disegnava con cura meticolosa i suoi quaderni di scena; album che da soli varrebbero una mostra. Quadri di un mondo di vita sospesa, nostalgicamente, nel suo giorno di festa: così in Chasse aux papillons (1992), ove il ritmo quieto della provincia, di nobiltà in decadenza e clero di solitudini, di monelli scanzonati di villaggio, si raduna intorno a giochi démodés, mentre scorrono alla radio le notizie di un mondo convulso, violento, bruciato dal proprio furore insensato e avido. Tutto si raccoglie nelle rughe vivacemente ironiche di Narda Blanchet [Bernarda Vleming, 1916-2010], protagonista di molti film di Iosseliani, nella saggezza libera di chi ha attraversato il mondo senza esserne toccato. Simmetricamente, anche Pierre Étaix, l’eterno clochard sino a Chant d’hiver, 2015, è stato – come direbbe Bresson – uno dei “modelli” di Iosseliani, tanto che lo troviamo protagonista in Diario di un ladro (Pickpocket) appunto di Robert Bresson, 1959, come poi in Chantrapas, 2010, sommessa parabola autobiografica del regista georgiano.
Il dettaglio impertinente o quotidiano, invisibile spesso, attira l’attenzione ritmica di Iosseliani: come le due pantofole infilate al buio ogni mattina dall’operaio Vincent di Lundi matin, 2002; o come il servito di piatti che migra da uno all’altro nei Favoris de la lune, 1984; o i trenini elettrici che girano e rigirano e ronzano sulla solitudine del vecchio padre chiuso in una stanza, mentre intorno a sé e dietro le spalle disnoda il suo calice di vino, in Addio, terraferma, 1999. Aristocratico in spirito, attraverso un dettaglio ancora Iosseliani rivela la sua sintonia più segreta: il cranio che fa da Leitmotiv alla trama di Chant d’hiver, 2015, richiama esplicitamente quello di L’Anglaise et le Duc di Érich Rohmer, 2001. Non solo quel simbolo, ma l’insieme delle opere dei due registi potrebbe in effetti raccogliersi sotto la stessa insegna: quella dei Contes moraux, delle Comédies et proverbes e dei Contes des quatre saisons.
Iosseliani termina infatti la sua parabola con Jardins en automne (2006) e Chant d’hiver: le stagioni del congedo, se Aprile era stato la fioritura d’avvenire. E sono “racconti morali” nel senso più profondo del termine: in una successione di cadute, tutti coloro che abbiano potere, dal ministro silurato al barista che raccoglie nell’oblio del bere gli sconfitti, uno dopo l’altro conoscono l’inanità e l’irriducibile libertà dei margini, sino a che – parimenti ridotti in povertà – sono accolti per una merenda da Marie, madre di uno degli sconfitti, interpretata da uno straordinario Michel Piccoli che in una capriola rovescia sé stesso e il mondo.
Vorrei ricordarlo così, Otar, nella sua vivida curiosità e generosa fedeltà agli uomini: «non amo viaggiare, ma vado a incontrare amici», musico di una Pastorale che non cesserà mai di ricominciare.
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