Domenicale, 17 gennaio 2024
Gandhi che svuota e pulisce i vasi da notte
Archivio14 Gennaio 2024Chiudi Con questo numero1Pagina12/13di 18Arricchimenti PERSONAGGIDomenica14 Gennaio 2024Dimensione carattereGRANDi lezioni dalla grande ANIMAGandhi. La biografia di Simonetta Casci sottolinea come lo scopo del filosofo non fosse tanto quello dello «swaraj», l’indipendenza dell’India, quanto il governo di sé attraverso la capacità di rimodellare la quotidianitàGian Carlo CalzaC’è nella vita di Gandhi, il Mahatma, o Grande Anima come gli indiani lo chiamarono ispirati dal poeta Tagore, un episodio paradigmatico che rappresenta in nuce il suo complesso percorso politico, religioso, sociale e soprattutto auto-educativo.
Il futuro padre della patria si trova con la famiglia a Durban in Sudafrica dove difende da avvocato gli espatriati indiani dalle prepotenze dei colonialisti britannici. È il 1898 e ha 28 anni. Ospita nella propria casa, senza distinzione di casta, classe, razza, colore, alcuni dipendenti: premessa alla successiva fondazione degli ashram, le comunità religioso-politiche create in Sudafrica e poi in India e ispirati a Tolstoj, Thoreau, Ruskin, Mazzini.
L’edificio è privo di fognatura e ogni stanza è dotata di recipienti che vanno svuotati giornalmente. Per evitare privilegi e disuguaglianze, Gandhi decide che a lui e alla moglie Kasturba spetti di compiere questo servizio per gli ospiti. La moglie che, come lui, proviene da una famiglia vaishnavita ortodossa accondiscende a trasportarle ma si rifiuta di pulire le tazze degli intoccabili. Ne nasce un alterco che porta Gandhi, fuori di sé, a trascinare la donna, disperata e in lacrime, verso il cancello di casa.
Di fronte al dolore di lei si rende però conto che sta commettendo una grave violenza, in nome del senso stesso dell’eguaglianza tra gli esseri, della difesa dei più deboli. Valori che egli si accorge di colpo di star tradendo per una questione di principio.
Nella rievocazione fatta nella sua autobiografia, La storia dei miei esperimenti con la Verità (1927) si percepisce quasi fisicamente tutto l’orrore di chi, come folgorato da un lampo di luce, veda sé stesso compiere un gesto contrario all’ideale al quale sta dedicando la propria esistenza e ne provi un senso profondo di vergogna. Momento chiave dell’autoformazione di Gandhi è uno dei pilastri della sua crescita, uno dei profondi, talvolta drammatici, dialoghi con sé stesso.
È in Sudafrica che egli forma la propria visione politico-etico-religiosa. Gandhi è soprattutto ricordato per il suo fondamentale contributo alla indipendenza del subcontinente indiano dal colonialismo britannico attraverso la pratica della verità (il satyagraha) e della non violenza assoluta (ahimsa), anche a rischio della propria esistenza. Eppure oggi ne è gravemente trascurata la lezione di vita, come successe anche a Giuseppe Mazzini, suo grande ispiratore.
Perciò benvenuta è la nuova biografia di Simonetta Casci: Gandhi. Una vita per la non violenza e la democrazia, edita da Mimesis. La studiosa proviene dalla scuola del principale storico italiano dell’Asia, Giorgio Borsa, autore del memorabile Gandhi e il risorgimento indiano, uscito nel 1942 per Bompiani.
Il fatto ha dell’incredibile: durante un periodo di grande sopraffazione esce in Italia, Paese a regime totalitario, un volume sul padre della non violenza scritto da un giovane laureato contrario al fascismo. Borsa contava che Gandhi fosse visto dal governo come un nemico dell’Inghilterra e quindi non passibile di censura. E così andò.
Nel 1915 al rientro in patria dal Sudafrica Gandhi è già famoso per il suo sostegno all’indipendenza ovunque, per l’assoluta integrità morale e per la stima attestata anche dagli avversari.
Il libro della Casci ha il pregio di sottolineare come lo scopo ultimo di Gandhi non fosse tanto quello dello swaraj, l’indipendenza dell’India, tout court quanto il governo di sé stessi attraverso l’applicazione alla propria vita del satyagraha e dell’ahimsa e cioè «rimodellare la quotidianità, soprattutto nei villaggi. Nel compiere questo Gandhi crea una sua arte molto particolare che applica a sé stesso rendendone partecipi quanti lo seguivano».
Non si tratta però di una questione d’immagine ma di uno stile di vita che richiede una coerenza assoluta del dire e del fare, cioè l’essere.
In pochi anni dall’inizio della sua attività Gandhi, da azzimato avvocato di stile inglese, si trasforma in contadino indiano di basso ceto. Si rade i capelli e indossa un panno di cotone grezzo intorno alle spalle e uno ai fianchi e semplici sandali, il tutto fatto da sé. Di altro possiede solo un grosso orologio legato in vita, un paio di occhiali e il filatoio (charkha) che porta sempre con sé. È il suo abbigliamento permanente anche di fronte al viceré o quando presiederà l’India National Congress.
Gandhi vuole trasmettere l’immagine non del potere, ma dell’uguaglianza e dell’amore autentico «(…) se in India pensano che sono un lunatico, cosa importa? (…) Cosa dovrei fare in un posto dove milioni di persone devono andare in giro nude? (…) L’abbigliamento di milioni di contadini è solamente il perizoma e niente altro».
Miseramente vestito, di pelle scura, gracile e sdentato, dallo sguardo acuto e il sorriso dolce, questo piccolo uomo è percepito dalla stragrande maggioranza degli indiani come uno di loro, qualcuno in cui ravvisano il proprio travaglio esistenziale. Gandhi intensifica al massimo i suoi viaggi a piedi attraverso il paese, di villaggio in villaggio: «non si può predicare il dharma viaggiando in treno, in auto o su un carro trainato da buoi. Si può predicare il dharma solamente andando a piedi».
«Morire per vivere» è l’ultimo paragrafo del libro prima delle conclusioni. Narra il percorso dell’uomo che aveva già dato tutto per il suo popolo e per l’umanità, senza riuscire a far veramente assimilare la sua visione. Troppi erano gli interessi ideologici (la modernizzazione industriale voluta da Nehru) o materiali con il Congresso sempre più in mano ai poteri forti come industria e latifondo e la Lega Musulmana decisa alla separazione di India e Pakistan.
Gandhi era sempre più amato dal popolo, ma anche isolato dalla politica anche perché secondo un suo pensiero più volte ripetuto e forse ispirato a Mazzini: «la politica separata dalla religione è come un cadavere che è bene seppellire al più presto».
Durante i massacri per la partizione tra India e Pakistan si prodiga in prima persona nelle zone più sanguinose per sedare i massacri fra hindu e musulmani, sospende un digiuno a morte solo di fronte alla garanzia di cessazione delle stragi da entrambe le parti.
E intanto si sente chiamato a un altro ruolo. Si intensificano i riferimenti alla morte: «C’è un’arte nel morire (…) tutti noi dobbiamo morire, ma si deve imparare a praticare come morire una bella morte» e «(…) se morirò colpito dal proiettile sparato da un pazzo, devo morire sorridendo».
Pochi giorni dopo un brahmano fanatico, Nathuram Godse, che lo riteneva colpevole di aver favorito i musulmani a spese degli hindu gli sparò a bruciapelo facendolo cadere a mani giunte e sorridente mentre pronunciava l’ultima invocazione a Dio: «Hey Ram».
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Simonetta Casci
Gandhi. Una vita per la non violenza e la democrazia
Mimesis, pagg. 202, ill., € 18