Domenicale, 17 gennaio 2024
Gli scritti di Kahn sull’architettura
Archivio14 Gennaio 2024Chiudi Con questo numero1Pagina10/11di 18Arricchimenti ARTEDomenica14 Gennaio 2024Dimensione carattereL’ARCHITETTO UN PO’ FILOSOFO: «COSA VUOI ESSERE, MATTONE?»Louis I. KahnGabriele Neri
«Sai, Gabor, se dovessi pensare a cosa potrei fare, invece dell’architetto, penso che scriverei delle nuove favole, perché dalle favole sono venuti l’aeroplano e la locomotiva e i meravigliosi strumenti della nostra mente». Lo confessava a un giovane amico il grande Louis Kahn, che difatti, oltre ai capolavori costruiti, seppe elargire parole preziosissime sulla poetica dell’architettura.
Dapprima favole, o per meglio dire dei piccoli miti, come quello sull’origine della colonna: «La colonna nacque dal muro. Il muro faceva il bene dell’uomo. Con il suo spessore e la sua forza lo proteggeva dalla rovina. Ma ben presto, la volontà di guardare fuori spinse l’uomo a fare un buco nel muro…». Kahn, però, scriveva anche libere sequenze di versi, aforismi e quesiti esistenziali, rivolti ai materiali («Cosa vuoi essere, mattone?») e agli studenti, aprendo dialoghi maieutici. «Considero l’insegnamento una ricompensa», spiegava. «La scuola è la mia cappella. Scrivo salmi». In tanti lo consideravano un architetto-filosofo, o addirittura il profeta dell’architettura. Balkrishna Doshi, che con Kahn aveva lavorato, trovò in lui uno yogi, una figura ascetica distaccata dalle contingenze terrene (tuttavia piuttosto intricate, con tre famiglie e figli in parallelo).
La maggior parte dei suoi testi, oggi ripubblicati in italiano da Einaudi, ha un’origine orale: sono trascrizioni perfezionate di lezioni, conferenze e interviste capaci di incantare grazie all’ars oratoria e al suo inconfondibile aspetto. Il volto, sfregiato in tenera età da tizzoni ardenti che ne avevano rapito lo sguardo (li mise nel suo grembiule, che prese fuoco), fu presto ornato da spessi occhiali e capelli bianchissimi, mentre la voce ritmava parole e silenzi, per donargli il giusto valore.
Dare valore all’architettura significava per Kahn dare valore alle nostre istituzioni, così da elevare i principi fondativi della società oltre il materialismo e il relativismo dominanti. Le forme, come le sue parole, dovevano perciò essere ipoteticamente eterne, per ritrovare la bussola dopo la crisi della Modernità. Il testo più celebre, non a caso, si intitola Ordine è (1955): quasi un mantra, una formula propiziatoria per il Dio dell’Architettura sul concetto di Order, qualità primigenia – come un seme – che precorre il progetto; «astrazione filosofica», diceva, da cui tutto è generato.
Le sue scritture sono a tratti solenni, ma spesso pure intime, incerte («io parlo, parlo, e a volte uso le parole sbagliate»), ripetitive. Tra omelie, litanie, aneddoti e pensieri, Kahn parla dei suoi colleghi, di Dante, Mozart, Goethe, Tolstoj e Cartier-Bresson, che lo fotografò. Scrive di vita e di morte, di consapevolezza e meraviglia. E ovviamente dei suoi progetti, anche se «quando insegno bene, di ciò che ho fatto non si parla mai».
La nuova antologia segue quella pubblicata nel 2002 da Electa, che ebbe il merito di inquadrare gli scritti per il pubblico italiano. Rispetto alla precedente è più generosa (39 testi contro 15); contiene inoltre due saggi di Marco Biraghi e Marco Falsetti (il curatore).
Una questione aperta riguarda il posizionamento degli scritti di Kahn – a cinquant’anni esatti dalla sua morte – rispetto al dibattito contemporaneo sull’architettura. Parlando di valori eterni e celebrando le istituzioni (con diffidenza verso le contestazioni del Sessantotto), inseguendo la Monumentalità e una visione metastorica, il suo messaggio parrebbe tremendamente inattuale. Allo stesso tempo però, per gli architetti e non solo, esso continua a rispondere a quell’imperituro bisogno di concretezza (la solidità della singola opera) e trascendenza (la sua immagine ideale) che dopo le decostruzioni postmoderne non è più stato appagato. Forse, il bisogno disperato di veri maestri.
Sulla traduzione: gli scarti linguistici con quella del 2002 (era di Francesco Dal Co) provano la complessità dell’esatta decifrazione di una prosa densa di sottintesi. Ad esempio, «Form» si traduce «Forma» o «La forma»? L’amico ingegnere August Komendant ammetteva di non capire Kahn senza aver prima bevuto un po’ di vodka.
Eppure, «Gabor è così attento», chiosava il Maestro; «ama talmente tanto il senso di “parola” che metterebbe sullo stesso piano una scultura di Fidia e una parola. Secondo lui una parola ha due qualità. Una è misurabile e corrisponde al suo uso quotidiano, mentre l’altra è il portento della sua esistenza, il che rappresenta una qualità non misurabile». Proprio come l’architettura, che è incarnazione dell’incommensurabile. «Si può misurare il Partenone? No. Sarebbe un crimine».
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Louis I. Kahn
Pensieri sull’architettura. Scritti 1931-1974
Einaudi, pagg. 376, € 27