Corriere della Sera, 17 gennaio 2024
L’Europa che non sa difendersi
Per circa 70 anni – un tempo che con il ritmo attuale degli eventi può considerarsi lunghissimo – le democrazie europee continentali nate (o rinate) dopo la fine della Seconda Guerra mondiale hanno goduto di un privilegio straordinario. Il privilegio di poter rinunciare tranquillamente alle spese militari. Per capire di che cosa stiamo parlando bisogna pensare che nel periodo immediatamente precedente, cioè negli anni ’20-’30 del Novecento, l’entità delle spese suddette ammontava mediamente al 10-15 per cento delle uscite nei bilanci dei Paesi del nostro continente. Dal 1945 in poi, invece, tranne il caso della Francia, questa voce è praticamente scomparsa (l’Italia spende ancora oggi meno dell’1 per cento del proprio bilancio). Notissima è la ragione di questa svolta sorprendente. Sta nel semplice fatto che in sostanza a partire dal 1945 le spese per la difesa dell’Europa se le sono accollate gli Stati Uniti.
Anche in questo modo gli Usa e la Nato sono stati tra i grandi artefici del radicamento dei nostri regimi democratici nel dopoguerra. Per alcuni decenni, infatti, le spese per istruzione, sanità, pensioni e quant’altro hanno potuto espandersi senza problemi godendo della virtuale cancellazione delle spese per la difesa, assicurata dalla copertura militare americana. Per settant’anni, dunque, le classi politiche europee hanno potuto disporre di un ammontare di risorse da impegnare nella costruzione di quel Welfare utilissimo ad allargare il proprio consenso elettorale.
Certo, è anche in questo modo che gli Usa hanno costruito la loro egemonia politica sull’Europa (visto che a memoria d’uomo nei rapporti internazionali nessuno fa nulla per nulla). Ma ciò non toglie che i regimi democratici del continente abbiano avuto nel fenomeno di cui sto dicendo uno dei fattori centrali per il proprio rafforzamento.
Che però tutto lascia credere sia ormai sul punto di svanire. Per molte ragioni, infatti, gli Stati Uniti non sembrano più avere né la disponibilità né la volontà né la capacità di presidiare militarmente tutte le aree di crisi che in numero crescente vanno aprendosi nel mondo, tantomeno di accollarsene il relativo costo. Come ancora recentemente ha proclamato Donald Trump, il candidato repubblicano che ha appena stravinto le primarie in Iowa. Tutto lascia credere insomma che per l’Europa e per l’Italia stiano finendo i bei giorni della sicurezza gratis. E dunque che a meno di non voler diventare un Paese alla mercé degli eventi e un potenziale oggetto di conquista di chiunque voglia provarci, stia per battere anche alle nostre porte il tempo di un inedito impegno di natura militare e di un conseguente e altrettanto inedito impegno finanziario.
Ma è un impegno che sopraggiunge quando il nostro sviluppo economico da anni ristagna, quando da anni non cresciamo e quando di conseguenza anche il bilancio dello Stato è costretto a operare continui tagli proprio alla spesa sociale. Da anni abbiamo istruzione, sanità, pensioni, sempre più poveri. Un aumento appena appena significativo delle nostre spese militari rischia così di rendere la situazione di questi settori ancora più critica e obbliga a porsi la domanda: la classe politica italiana è pronta a far fronte a una situazione di tal genere? È pronta ad affrontare un futuro nel quale non sarà più tanto facile ricorrere disinvoltamente alla spesa pubblica per puri scopi di consenso elettorale, nel quale essa dovrà governare con sempre minori possibilità di elargire superbonus, elusioni fiscali, assunzioni facili, regalie e facilitazioni varie? È pronta a pensare che la ricreazione è finita e che non ci sono più merendine gratis da distribuire?
Ma è soprattutto sul versante dell’opinione pubblica che molto probabilmente il nuovo scenario politico-militare mondiale, e quindi la nuova situazione dell’Italia, rischiano di incontrare le maggiori difficoltà ad essere compresi ed accettati. Una lunga serie di fattori – la rovinosa sconfitta bellica, la lunga prevalenza di due culture politiche come quella cattolica e quella comunista, l’altrettanto lunga e incessante propaganda pseudopacifista (perché realtà anti-Usa) della sinistra, infine la predicazione a favore della pace da parte della Chiesa nonché la diffusissima convinzione che la Costituzione stessa contenga un esplicito divieto di fare la guerra – tutto ciò ha finito per far sì che nell’opinione pubblica del nostro Paese si siano affermati in larghissima misura due orientamenti assai poco in sintonia con i tempi che si annunciano.
Il primo consiste nel ritenere che la guerra non nasca dalla insopprimibile tendenza degli Stati al mantenimento o all’accrescimento del proprio potere in tutte le sue forme, dalla tendenza alla difesa degli interessi considerati come oggettivamente vitali per la conservazione della propria identità geo-politica. Che la guerra, dicevo, lungi dal nascere da ciò, come difatti quasi sempre è, sia il frutto, viceversa, di una errata e/o cattiva disposizione dell’animo di chi governa, delle sue personali convinzioni, di una sua personale malvagia sete di dominio. Ciò che spesso, beninteso, è anche vero, ma quasi sempre non fa che aggiungersi all’altro fattore prima citato
Il secondo orientamento assai diffuso nell’opinione pubblica italiana consiste invece nel rifiuto radicale dell’idea che uno dei modi più efficaci per allontanare il pericolo della guerra sia il timore da parte di un eventuale aggressore di essere sconfitto. Nel rifiuto quindi dell’idea che dotarsi di un valido strumento militare rappresenti uno degli strumenti ovvi, anche se all’apparenza contraddittori, per mantenere la pace. Alla maggioranza degli italiani l’antico adagio «se vuoi la pace prepara la guerra» appare semplicemente come uno slogan da guerrafondai.
Da ogni punto di vista, dunque, al drammatico mutamento dei tempi il nostro Paese giunge scarsamente preparato. Come al solito, verrebbe da dire. Solo che stavolta il rischio che corriamo è forse il maggiore di sempre.