la Repubblica, 17 gennaio 2024
Intervista a Francesco Moser
MILANO – Quel volo dentro il tempo è diventato un magnifico quarantenne: 19 gennaio 1984, Francesco Moser polverizza il record dell’ora di Merckx a Città del Messico, e quattro giorni dopo distrugge pure il suo. «Avevo le ali, volavamo nel futuro». Esiste un ciclismo avanti Cecco e dopo Cecco. L’antichità e la modernità, il corpo puro e la scienza applicata. Indietro non si torna. Francesco Moser vale Neil Armstrong.
E adesso cosa c’è nella sua vita?
«Ho 72 anni, il dentista mi ha appena scavato per bene e alla fine sono tutto gonfio pensando che fu più facile vincere le Roubaix. Il tempo passa, bisogna abituarsi. Ho il mio metodo: dimenticare gli anniversari».
Funziona?
«Assolutamente no. Festeggerò i due record con un pranzo tra amici».
Il primo ricordo di quei giorni messicani?
«Mia figlia Francesca che ha un anno e comincia a camminare proprio là, mentre io pedalo».
Il secondo ricordo?
«Ci rubarono il vino che avevamo portato dall’Italia insieme alle cibarie. Affittammo una villetta, girò la voce e ci presero quanto di più prezioso. Naturalmente scherzo, però un buon bicchiere…»
Non per nulla il suo Trento Doc più celebre si chiama “51.151”, l’incredibile misura del secondo primato, quello del 23 gennaio ’84.
«Centomila bottiglie all’anno. Lo producevamo dal 1976 ma senza imbottigliarlo, vendevamo le uve, rendeva meno. Quando tornai a casa dopo il record, la cantina sociale di Trento mi fece trovare una magnum da 30 litri: inventarono una specie di bilanciere per inclinarla…»
Come nacque la scommessa messicana?
«Ci pensavamo da un po’, ma risolvemmo tutto in meno di due mesi. Le famose ruote lenticolari in carbonio le produceva il signor Testa di Somma Lombardo, una testa veramente, costruiva scocche per automobili e ne aveva persino una elettrica già 40 anni fa. Ma erano ruote ancora pesanti e un po’ storte: ne fece un paio più leggere, arrivarono in Messico sei giorni prima del record. Le montammo, andavano molto meglio».
Lei pedalava quasi parallelo alla pista, una cosa mai vista.
«Eravamo andati anche oltre, pensando a un manubrio per tenere le braccia lunghe, come poi sarebbe successo. Ma non c’era il tempo per costruirlo».
Tuttavia: body, aerodinamica, cardiofrequenzimetro, dieta speciale. Altri mondi.
«Il misuratore di pulsazioni era grosso, pesante al polso, pieno di fili. Si legavano al petto con una striscia di tela, mi sentivo una mummia. Ma, alla fine, fu come andare sulla Luna».
Si sospettò che ci andaste anche grazie al doping: i medici Conconi e Ferrari, tanto per fare nomi.
«Fesserie, per anni ho provato disturbo e niente di più: noi siamo nella storia. Quando non si vuole accettare o capire la scienza, la si demonizza: si cacciano le streghe e si accendono i roghi. Ero seguito da professori stimatissimi, specialisti universitari, cattedratici. Il fatto è che nessuno credeva all’impresa: conservo ancora i giornali di allora».
I sospetti non sono mai finiti.
«I critici si attaccavano a tutto, se la presero anche con i pantaloni del mio body. Erano stati gli svizzeri i primi a usarlo. Io lo indossavo un po’ per l’aerodinamica, ma soprattutto per il freddo: si doveva pedalare presto, la mattina, per anticipare l’alzarsi del vento. Arrivavo in pista, e sul cemento era fiorita la brina notturna. In strada mi allenavo con una tuta da sci di fondo, facevo le ripetute su una salita molto dura che andava verso un campo da golf, era tutto molto pittoresco».
Perché sceglieste una pista in cemento?
«Quella olimpica in legno era scassata, non c’era tempo per rimetterla a posto. Ma anche l’anello del Centro Deportivo era ridotto male, pieno di buchi. La ditta FIR di Parma ci mandò una resina speciale per tapparli, una delle prime di quel tipo, anche questa era ricerca.
Significa vedere il futuro primadegli altri: è così che si è evoluta la specie umana. Con la fantasia, con la follia, non con lo scetticismo o il sospetto».
Possiamo dire che fu un’avventura?
«Eccome! Mi tornano in mente le squadre dei pittori che scrivevano con il pennello i nomi degli sponsor sui pannelli pubblicitari, e gli aeroplani che mi passavano sulla testa mentre pedalavo. Eravamo andati in Messico già un mese prima, non trascurammo niente».
Però quell’impresa la preparaste anche a Milano.
«A dicembre mi allenavo alPalazzetto accanto al Vigorelli, insieme all’Olimpia Basket. Dan Peterson, il coach, era felice di vedermi: “Meno male che è arrivato Moser”, diceva, “così almeno oggi accenderanno il riscaldamento”».
Il 19 gennaio 1984 doveva essere soltanto un test.
«Sì, una prova generale per giudici e cronometristi, oltre che per me: non volevamo imprevisti. La data stabilita era il 23. Nei giorni precedenti ci eravamo accorti che andavo fortissimo, così partii a tutta. Non sentivo la fatica, e dopo 20 chilometri ero già in netto vantaggio su Merckx che nel ’72 aveva percorso, in un’ora, 49,432 chilometri. Guadagnavo giro dopo giro, e decisi di proseguire. Lo speaker annunciò: “Va por la hora!”. Il resto venne quasi da sé, e cadde il muro dei 50 chilometri. Per l’esattezza, ne avevo percorsi 50,808».
Come mai pensaste di rifarlo subito?
«I tifosi avevano prenotato il viaggio per il 23 gennaio, solo dal Trentino ne stavano arrivando duecento. Le tribune del velodromo erano piccole e io non volevo deludere nessuno. E poi avevo capito di avere nelle gambe una misura ancora migliore. Decisi di aggiungere un dente al padellone, 57 anziché 56, ma avrei potuto tirare anche il 58».
Mentre pedalava la prima volta, pensava a Merckx?
«Ma no, io ci avevo corso contro e lo avevo anche battuto a cronometro…»
Il Cannibale, dopo il record scese di sella e disse: mai più.
«Era andato a Città del Messico pochi giorni prima, non aveva fatto in tempo ad acclimatarsi. Credo avesse usato una maschera per il dosaggio dell’ossigeno, ma non è la stessa cosa».
Cosa ricorda dei personaggi che la circondavano?
«Il direttore del velodromo si chiamava Luigi Casola e aveva corso con Coppi. Viveva in Messico da molti anni, parlava un buffo italiano misto a spagnolo. Mi ripeteva sempre: “Tranquilo che l’equipo gana!”Si rideva tanto, erano giorni pieni di umanità».
Moser, pensa che siano stati i più importanti della sua carriera?
«Probabilmente sì, perché inventammo il futuro. Non so se nella storia del ciclismo ci sia mai stato un momento simile».
Lei provò a riprendersi il record 10 anni dopo: fece meglio del Moser ’84, non del detentore Obree.
«Sbagliai la scelta della bicicletta: se avessi usato la mia, ce l’avrei fatta anche se avevo già 42 anni. Invece con l’altra non respiravo, era un problema di posizione. Mi sarebbe bastato allungare di più le braccia».
Suo figlio Ignazio è molto social: sposerà prima o poi Cecilia Rodriguez, la sorella di Belen?
«Non mi faccio i fatti loro, non guardo Internet, uso il cellulare solo per telefonare. Il matrimonio?
Quando lo vedo, ci credo».
Anche lei, però: un divorzio dopo quarant’anni, una nuova compagna, Mara Mosole, 17 anni di differenza.
«Amare dopo i 70 non è come quando si è ragazzi, ma stare da soli non è bello. Lei correva in bici, è stata campionessa italiana, dice che ero il suo idolo. Ogni tanto pedaliamo insieme».
Cosa significa il tempo che passa, per il signore del Tempo?
«Prima i giorni andavano avanti e basta, i giorni e le notti. Ora conto anche i minuti, anche i secondi. E quando passo nei miei paesi, mi accorgo che della gente che conoscevo ne rimane sempre meno».
C’è un modo per difendersi?
«Pensare alla salute e sperare che basti, facendo attenzione quando si pedala: ormai, in strada, per i ciclisti è una strage. In bicicletta vado ancora, in salita uso quella elettrica e poi scio, anche se il ginocchio fa un po’ male».
Francesco, ma quanto si è divertito?
«Tantissimo. L’altro giorno ripensavo a quella volta che andammo in bici sul Ghisallo insieme a vari personaggi dello spettacolo. Mi ritrovai accanto Loredana Bertè e la spinsi fino in cima».