La Stampa, 17 gennaio 2024
Dove va il nostro mondo (Alan Friedman e Vittorio E. Parsi)
Alan Friedman: In questa conversazione vogliamo parlare della geopolitica e di quel che ci aspetta nel 2024, ma vorrei cominciare da un tema più basilare, il ruolo delle idee nel dare forma alla realtà della politica internazionale. Nell’epoca del post Guerra fredda non contano più le ideologie, ma le idee?
Vittorio Emanuele Parsi: Le idee hanno sempre contato. Che cosa sarebbe stato l’Impero Romano se i Romani non avessero avuto una loro concezione del mondo e del loro posto nel mondo? Parliamo di oltre 2 mila anni fa. Paradossalmente noi abbiamo riservato questa centralità del ruolo delle idee alla particolare configurazione della leadership americana, nel secolo americano. Per la struttura democratica di potere domestico americano, per il ruolo importante che i media giocavano nella società americana (in anticipo rispetto a quello che sarebbe avvenuto nel resto del mondo) era molto evidente come conquistare innanzitutto la leadership delle idee fosse la cosa più importante. A mio avviso c’è stato un doppio fenomeno: da una parte persino all’interno degli Stati Uniti chi esercitava il potere talvolta se l’è persa di vista. Dall’altra parte abbiamo pensato che con la fine della Guerra Fredda, e poi con la caduta del lungo momento unipolare americano, ammesso che poi sia effettivamente già caduto e non sempre in via di riduzione della propria capacità, le idee se ne andassero e non fossero più importanti. A volte penso che siamo stati almeno come europei o come italiani troppo poco hegeliani e troppo marxisti di seconda mano.
A. F.: Partiamo dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989, l’America non ha saputo interpretare le opportunità successive alla Guerra fredda?
V. E. P.: No, penso che in realtà ci sia stato un lavoro di rielaborazione, per molti aspetti l’11 settembre ha dato un colpo agli Stati Uniti talmente violento nell’aspetto concreto, cioè le Twin Towers a New York, da far perdere di vista che quello era in realtà un attacco innanzitutto alla concezione, alla visione americana del mondo, molto più che alla sicurezza americana nel mondo. E questo secondo me ha un po’ dirottato anche il dibattito americano.
A. F.: Bene, ma nella Guerra fredda c’era la dialettica fra la democrazia e il totalitarismo comunista dell’Unione Sovietica, e poi negli anni ’90 Fukuyama ha decretato la fine della storia. E Bill Clinton ha abbracciato la globalizzazione. Quindi è vero che c’è stato un colpo drammatico dell’11 settembre, ma non ci sono più le ideologie. Quindi siamo in un’epoca più di democrazia contro autocrazia, come dice Biden?
V. E. P.: Intanto sia democrazia sia autocrazia sono delle ideologie, nel senso più nobile del termine, sono gli occhiali con i quali noi vediamo la realtà, le diamo una forma. Quindi l’ideologia non è una falsificazione della realtà, l’ideologia è l’aspetto operativo delle idee, è la declinazione politica delle idee. Così Biden ha ragione nel dire che c’è una contrapposizione tra democrazie e autocrazie. Ma se ci pensi, anche quando Clinton pensava che le ideologie fossero alle spalle esprimeva un’ideologia, nel senso che tutto il grande avvento della globalizzazione riposava sulle spalle di un’ideologia liberale molto, diciamo, neo liberal, nella quale si postulava che il peso delle idee politiche in senso stretto fosse ridotto al minimo in maniera da lasciare il massimo spazio alle forze del mercato. Anche questa è un’ideologia. Questo perché è importante secondo me? Perché ci dice che se un domani l’ideologia liberaldemocratica e la leadership liberaldemocratica non fosse alla guida del mondo, avremmo comunque una globalizzazione, ma una globalizzazione il cui peso del potere politico sarebbe estremamente più pervasivo.
A. F.: Ma Vittorio, siamo invece in un’epoca in cui la destra estrema guadagna potere in una grande parte dell’Occidente, in cui c’è il rischio del ritorno di Trump, in cui ci sono delle questioni esistenziali per i valori della democrazia liberale sotto attacco, e quindi è la fine della liberaldemocrazia? Ci arrendiamo? È finita?
V. E. P.: No, io penso che sia un tornante della Storia, la liberaldemocrazia in senso ampio è qualcosa che ha a che fare con lo sviluppo del razionalismo. Noi facciamo partire la liberaldemocrazia con l’epoca dei Lumi dal punto di vista ideologico, in realtà se vai a guardare, l’ideologia liberale è così pervasiva perché è molto coerente rispetto al razionalismo scientifico, e quindi è un’ideologia che si vede poco, per così dire.
A. F.: Però parliamo in modo un po’ più empirico, vediamo l’Europa di oggi, abbiamo già capito che l’America, secondo la tua analisi, è in discesa e non è più quella di una volta, della Pax Americana. E c’è uno tsunami di populismo e sovranismo, e il tuo ultimo libro, Madre patria, è un tentativo di offrire una visione di sovranisti non “cattivi”, ma più “buoni.” Come la mettiamo però con il fenomeno di Orbán e di altri sovranisti in Europa?
V. E. P.: Sì, se vuoi la questione è un po’ questa, la caratteristica principale dell’Europa è un pluralismo culturale e politico, se vuoi anche nazionale, che si è sviluppato nel corso dei secoli attraverso moltissime guerre. Quello che i sovranisti non capiscono è che il pluralismo europeo oggi è possibile solo a condizione di una maggiore unità politica, della costruzione di una struttura politica unitaria che consente ai francesi di restare francesi e ai tedeschi di restare tedeschi e permette agli ungheresi di rimanere ungheresi e di non finire vassalli di qualcun altro. Questo è il cortocircuito della riposta sovranista alle sfide che abbiamo di fronte, cioè scambiare il dito con la luna, in qualche modo, pensare che noi possiamo tornare al passato. Questo è impossibile perché noi abbiamo comunque di fronte un mondo che resta molto interdipendente, che resterà fortemente globalizzato, che continuerà a scambiare tanto, in un sistema finanziario molto intrecciato, come stiamo vedendo dalla guerra in Ucraina. Allora di fronte a questo è folle pensare che tu puoi sfuggire da tutto andando in una dimensione più piccola del potere politico. L’unico modo per cercare di controllare questi fenomeni è andare verso una dimensione più grande dal punto di vista dell’organizzazione.
A. F.: Vuol dire perdere un po’ di sovranità per la difesa comune, per esempio.
V. E. P.: Vuol dire aggiungere una quota di sovranità comune alle singole quote di sovranità nazionale. L’Unione Europea non toglie sovranità agli Stati, aggiunge una sovranità che può essere visibile ed effettiva solo se giocata in maniera unita.
A. F.: Ma ti chiedo di spiegarmi questo: se dal 1954, quando Luigi Einaudi ha spinto l’idea di una difesa comune europea ad oggi, 2024, non è stato possibile, possiamo dichiarare questa idea morta?
V. E. P.: Le idee muoiono come gli amori, sai? Gli amori muoiono quando vengono sostituiti da un altro amore, le idee muoiono quando vengono sostituite da un’altra idea. A me sembra che l’idea europea paradossalmente continua a essere viva, perché non c’è un’altra idea alternativa, che funzioni in qualunque possibile prospettiva.
A. F.: Quindi è un’idea ancora non realizzata ?
V. E. P.: Esatto. C’è ancora da fare e sono d’accordo con te che rispetto a quanto si sarebbe potuto fare è stato fatto poco. Rispetto al tema che non si possa fare più niente, io sono assolutamente invece convinto di sì. Il punto fondamentale secondo me è che i grandi Paesi europei devono mettersi d’accordo su questo punto, cioè, devono mettersi d’accordo su un’idea fondamentale, che un’unione più federale è un vantaggio per tutti.
A. F.: Ecco, ma un esempio proprio della difficoltà, se non dell’impossibilità, di superare questi problemi è la mancanza di aiuti all’Ucraina. Il ricatto di Orbán è perfettamente allineato con i trumpisti a Washington, significa forse che gli alleati di Putin nelle democrazie, questi alleati illiberali, stanno vincendo?
V. E. P.: Tra le sfide che oggi le democrazie hanno, ce n’è una esterna che è rappresentata da Putin o da Xi seppure in maniera diversa, e una interna che è rappresentata da tutti quei soggetti che nel nome della nostalgia per un passato che non può tornare, sono oggettivi alleati di fatto del nemico esterno. Questa è la nostra grande difficoltà. E qui occorre che i grandi Paesi trovino il modo per aggirare i trattati, lo dico senza timidezza, e noi sappiamo che in Europa quando c’è coesione politica tra i grandi, i trattati vengono interpretati in maniera molto diversa. A quel punto poi vedremo gli ungheresi che cosa faranno.
A. F.: Guardiamo al 2024, c’è un’elezione in cui Trump potrebbe essere eletto di nuovo presidente in America e Vladimir Putin sta lì, seduto alla sua scrivania, pronto a sfruttare al massimo tutto il disordine in Europa e negli Usa. In questo contesto, dove andiamo professore?
V. E. P.: Una situazione come questa mi ricorda molto l’Europa del 1939, un anno orribile come lo furono quelli immediatamente successivi.
A. F.: Quali sono gli elementi che ricordano il 1939?
V. E. P.: L’appeasement nei confronti di un tiranno che ha mostrato una totale propensione a non solo usare la forza, ma a mentire sistematicamente. Io non conosco un leader politico che abbia mentito così sistematicamente come Putin dai tempi di Hitler, e questo secondo me è il parallelo.
A. F.: E chi sta facendo l’appeasement secondo te?
V. E. P.: Tutta l’Europa fino a questo momento ha fatto parecchio appeasement. Paradossalmente Scholz, anche se è vero che è a rischio di cadere, sta mostrando una grande tenuta. Scholz sta facendo per l’unità dell’Europa molto di più di quanto abbia fatto Merkel per tanti anni.
A. F.: Però Vittorio, tu sei d’accordo che Putin probabilmente aspetterà l’esito del voto di novembre 2024 prima di finire la guerra in Ucraina e chi parla di pace o di cessate il fuoco ora, sogna?
V. E. P.: Penso che Putin se potrà vincere prima cercherà di vincere prima, perché se Putin dovesse mettere l’Ucraina in gran difficoltà avrebbe un’influenza determinante sulla elezione del presidente americano. Se Putin aspetta l’elezione Usa in qualche modo attende un esito esterno per capire come va la sua politica. Da quel poco che capisco io di Putin, lui sarà più teso a cercare di condizionare le elezioni americane, questa volta non con Cambridge Analytica e l’ingerenza sui social media, ma mettendo in imbarazzo Biden in Ucraina, e così aiutando Trump a vincere.
A. F.: Ti preoccupa l’idea di un’egemonia cinese o pensi che questa sia esagerata?
V. E. P.: Penso che la strategia cinese sia quella di perseguire un’egemonia, però credo che ci sia margine per trovare un margine di accomodamento. Perché la Cina non è avulsa rispetto alla modernità, mentre la Russia è chiusa rispetto alla modernità e per questo è il vero impero del male. Molto più dell’Unione Sovietica, in questo senso, è The dark empire, l’impero dell’oscurità.
A. F.: Bene, Vittorio Emanuele Parsi, con questa immagine ci lasciamo. Grazie per il tuo tempo.
V. E. P.: Grazie a te, Alan. —