La Stampa, 16 gennaio 2024
Le nuove parole sono importanti
Una delle domande che mi vengono fatte più spesso è «a cosa servono le parole?». Il quesito è non di rado posto con una vena polemica, di solito ponendo in contrapposizione la realtà e la lingua, come se queste due entità si dovessero per forza affrontare su un ring immaginario, e solo una delle due potesse uscirne vittoriosa. È una narrazione che risponde al bisogno di polarizzazione che tanto affligge il nostro presente: sì o no, bianco o nero, a favore o contro, giusto o sbagliato, vero o falso; i “grigi della conoscenza” sembrano svanire nella schiera giornaliera di giudizi apodittici che vengono espressi da chiunque – e richiesti a chiunque.Realtà e lingua non sono affatto in opposizione, ma si influenzano a vicenda: la realtà, mutando, influenza la lingua; ma la lingua può, a sua volta, influire non tanto sulla realtà, quanto sul modo in cui la vediamo. È un’influenza meno diretta, ma non per questo meno importante: la narrazione che mettiamo in atto di quello che accade nel mondo può modificarne la percezione e la ricezione: immigrati (participio passato: azione conclusa) o migranti (participio presente: azione ancora in corso)? Vittime civili o danni collaterali? Gestazione per altre persone o utero in affitto?Le parole sono ganci verso mondi di conoscenze, credenze, convinzioni, tradizioni, giudizi e pregiudizi, e ogni volta che scegliamo di usarne una piuttosto che un’altra (qui, faccio notare, il piuttosto che è usato in maniera tradizionale), stiamo rendendo tutto questo più o meno fruibile, comprensibile a chi abbiamo attorno. E poiché noi, come individui e come società, siamo in perenne mutamento, come pure è in perenne mutamento la realtà, continuano a nascere e a diffondersi nell’uso parole nuove. Alcune di queste, quelle più “fortunate”, finiscono per venire registrate nei vocabolari come neologismi. Chiunque può coniare una parola nuova, ma solo una piccola parte di queste finisce nei repertori lessicografici: i lemmi che si dimostrano stabili nell’uso (quindi, non i tormentoni dalla vita breve), usati da un numero congruo di persone, magari non solo in un unico luogo (spesso, i localismi, magari caratteristici di una specifica città, non riescono a superare questa barriera), possibilmente in più contesti (questo limita l’accesso ai gergalismi di area troppo ristretta, come molti termini usati nel mondo del gaming).Nonostante tutti questi paletti, edizione dopo edizione i vocabolari si arricchiscono di neologismi, che guardiamo sempre con curiosità. E tale interesse non è strano: in fondo, ogni anno è caratterizzato da una serie di lemmi che non solo arricchiscono le raccolte lessicografiche, ma che servono anche per capire, a distanza di anni, decenni, secoli, cosa fosse successo in un certo momento storico. Così come dagli anelli di un albero tagliato si può desumere cosa sia successo in questo o quell’anno vissuto dalla pianta, così, osservando la datazione in cui un certo lemma ha fatto ingresso nel dizionario, possiamo farci un’idea di quale fosse lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, di quel certo anno. Per esempio, nel recente passato, la pandemia da Covid-19 ha portato nei lemmari una pletora di termini a essa collegati; nel 2023, questa è sicuramente diventata secondaria rispetto ad altri grandi e tragici avvenimenti.È appena stato pubblicato da Treccani Il Libro dell’Anno 2023, diretto da Marcello Sorgi, completato da un’appendice a cura di Silverio Novelli dedicata proprio alle Parole dell’anno. Tra i termini inseriti, troviamo neocòni sia italiani (armocromia: «Nel campo della moda e della consulenza dell’immagine, la teoria e l’analisi che mirano a individuare le tinte dei capi di vestiario e dei cosmetici che si armonizzino con la carnagione della pelle, il colore degli occhi, delle labbra e dei capelli, valorizzando l’aspetto della persona») sia inglesi (diversity editor: «Nel campo dell’editoria e dell’informazione, chi si occupa di favorire una rappresentazione della diversità equa e inclusiva, anche attraverso l’utilizzo di un linguaggio sensibile e rispettoso delle differenze»), alcuni nomi propri (Caronte: «Denominazione non ufficiale di un anticiclone di provenienza africana, portatore di elevate temperature nel bacino del Mediterraneo») e molte espressioni polirematiche, cioè formate da una sequenza di più parole (intelligenza artificiale generativa: «Qualsiasi tipo di intelligenza artificiale in grado di creare, in risposta a specifiche richieste, diversi tipi di contenuti come testi, audio, immagini, video»).Politica (l’armocromia è diventata famosa a causa di un’intervista rilasciata da Elly Schlein a Vogue, che fece un certo scalpore; ma esisteva da tempo), diversità, equità e inclusione, questioni climatiche, tecnologia: quattro campi che, in questa lista, sono riccamente rappresentati: abbiamo ancora underdog («Chi, partecipando da sfavorito a una competizione, sportiva o extrasportiva, riesce a sovvertire i pronostici»), usato dalla premier Giorgia Meloni, ma anche orbanizzare («Conforme ai modelli, alle proposte e alle scelte del politico Viktor Orbán»); famiglia queer («La comunità di persone che, indipendentemente dal genere di appartenenza o dall’orientamento sessuale, vivono insieme per scelta e sono legate da affinità elettive»), che dobbiamo al lavoro dell’ultima parte della vita di Michela Murgia) e gravidanza solidale («Nell’ambito della Gpa, la gestazione per conto d’altri, cioè la gravidanza che viene portata avanti dalla gestante senza alcun compenso da parte dei genitori intenzionali, con l’obiettivo di mettere al centro la tutela dei nati»); downburst ed eco-talebano; booktok e pregiudizio algoritmico. Questi quattro campi semantici la fanno da padroni, nella lista di Treccani.Quando tra decine, o magari centinaia di anni, gli esseri umani del futuro consulteranno le parole nuove di quest’anno, non metteranno in dubbio che vivessimo in un’epoca percorsa da mille inquietudini. E magari sorrideranno pensando alle cose sulle quali ancora ci accapigliavamo. —