La Stampa, 15 gennaio 2024
L’influencer e i topi
Mi dicono che molti ragazzini, alla domanda cosa vuoi fare da grande, rispondono: l’influencer. Fin dalla più tenera età, elementari o medie. Che stia diventando un lavoro vero e proprio è fuor di dubbio. Tutto bene, dunque, il mondo cambia, ci mancherebbe che restassimo ancorati a professioni vecchie e ormai dubbiamente promettenti come l’avvocato e il professore di filosofia. Ma allora perché mi assale sempre una certa inquietudine, venata di tristezza, davanti alla parola influencer? Forse perché appartengo al vecchio mondo e non riesco ad adeguarmi? Non so, vorrei provare a dire che c’è qualcosina di più.
Influencer è una persona che, sui social, attraverso le sue virtù (vere o presunte), “influenza” un gran numero di altre persone, e che grazie al numero di costoro che lo “seguono” acquisisce un certo successo e, in prospettiva, può anche ricavarne dei guadagni. I verbi chiave qui, è chiaro, sono due: influenzare e seguire.
Partiamo dal primo. Niente da dire sul successo: ha attirato i giovani di tutte le generazioni, sempre. Solo due differenze: prima si pensava di avere successo grazie alle cose che uno sapeva, e sapeva fare, all’originalità delle idee o del modo di vivere. In questo senso si poteva anche influenzare il pensiero e l’azione di altri, ma non lo si veniva nemmeno a sapere. Semmai si veniva ammirati, non “seguiti”. E comunque influenzare non era l’obiettivo: si teneva anche all’originalità altrui, non si volevano pecore al seguito. Oggi invece si persegue il numero delle pecore come primo obiettivo, e si pensa che questo sia il successo, e che lo si ottenga grazie alle immagini di sé che si mandano in giro. Video e foto dove ci si atteggia e ci si mostra non per come si è, ma per come è più vantaggioso far credere di essere. Già sarebbe triste un mondo in cui si vive per mostrarsi, ma qui si va oltre: ci si costruisce in un certo modo apposta per mostrarsi. Quel che va in giro in rete sono eìdola, in greco, dalla radice del verbo vedere, in latino simulacra: fantasmi, statue, ombre. Immagini simili al vero ma non vere, ciò che soltanto “si vede” ed è quindi fallace, artefatto, non veritiero, apparente, ingannevole. Finto. Se poi pensiamo che a breve gli influencer saranno virtuali, è ancor più chiaro il punto.
Veniamo al verbo seguire. Seguiamo l’influencer, quindi diventiamo followers. Ci alletta l’idea di essere influenzatori, ma ci piace tantissimo anche essere seguitori. Passiamo ore a seguire i nostri influencer preferiti. Com’è possibile? Non vediamo che è tutto finto? O ci piacciono i fantasmi, i simulacri, gli idoli? Siamo ancora quelli che adorano il vitello d’oro?
Anche il pifferaio magico era un influencer, lo seguivano tutti in massa infatti, prima i topi poi i bambini di Hamelin, gli uni affogando nel fiume, gli altri sparendo nel nulla per sempre. Lui usava la musica (per questo era magico). Gli influencer usano una parola magica: condivisione. Condividono in diretta amori, figli, ristoranti, genitori, matrimoni, soprammobili di casa, malattie, premi, e performance varie. E, talora, in mezzo ci passano l’immagine di un jeans, di una crema antirughe o di un pandoro. È la nuova forma, geniale, della pubblicità: mescolare alle immagini il racconto di sé, della propria vita, delle proprie emozioni. L’influencer ci influenza perché condivide: non nasconde ma mostra, ostenta, non tiene per sé ma mette a disposizione, esibisce, include, coinvolge, spesso addirittura interloquisce rispondendo. Per questo ci caschiamo: perché lui ci fa sentire parte della sua vita.
Facciamo tutti qualcosa di simile, in fondo, nel nostro piccolo, quando fotografiamo la pizza che stiamo mangiando o ci facciamo un selfie davanti al ristorante famoso e mandiamo in rete le foto: mostriamo, esibiamo. Non so se è per racimolare qualche follower o semplicemente per dire di esistere, visto che oggi nulla esiste se non appare, se non diventa immagine. Ci illudiamo di conquistare amicizia e forse successo, ma almeno non abbiamo fini commerciali. L’influencer invece sì, vuole indurci a comprare qualcosa. Per questo il suo è un lavoro e il nostro no: lui rappresenta un prodotto, un marchio, e ha una percentuale sul venduto. Lui aiuta a vendere. Infatti il seguitore, grato per la condivisione, commosso per l’amicizia, ammirato del successo di chi lo influenza, compra. Compra per assomigliare a lui, e diventa copia di una copia. Caro influencer, tu dimmi cosa fai e io ti dirò chi sono: nessuno, solo uno che vuole essere come te.
Si chiama pubblicità. Influencer non è altro che il nuovo modo di fare pubblicità. E follower non è che un altro modo di essere consumatore. Ovvio, banale. Possibile che ci sia stato bisogno dello scivolone ferragnesco per capirlo?
Volevo arrivare qui. Al commercio. A quell’arte del vendere e comprare che si chiama commercio, e che è fin dalle origini il male del mondo: nel suo famoso libro del 1976 lo psicologo statunitense Julian Jaynes racconta che gli dei hanno abbandonato il mondo e hanno smesso di parlarci quando gli esseri umani hanno cominciato a commerciare. Se ha ragione, vuol dire che ci siamo giocati pure gli dei, per il gusto di fare affari!
Finisco con una domanda e un piccolo sogno. La domanda è: chiediamoci se ci piace davvero tanto esser trattati da consumatori, se vale la pena passare ore a seguire chi ci parla solo per venderci un prodotto, se comprare è la nuova, aberrante, forma di provare ammirazione per qualcuno.
E infine il sogno: pensate se di colpo tutti noi del pianeta ORG (Occidente Ricco e Gaudente) mandassimo a quel paese il pifferaio di Hamelin. Se smettessimo di guardare la pubblicità e di seguire gli influencer… Se smettessimo di mostrare e postare la nostra vita e ci limitassimo a viverla… Ci salveremmo, a differenza dei topi annegati?
Tema per un prossimo, eventuale romanzo (utopico, non distopico): fatti non fummo a viver come topi.