MowMag, 15 gennaio 2024
Ecco perché nella vicenda Pedretti-Biagiarelli-Lucarelli è tutto sbagliato
La storia tragica della ristoratrice Giovanna Pedretti di Sant’Angelo Lodigiano, che replicando a una recensione omofoba e discriminatoria sul proprio locale – poi messa in dubbio nella sua veridicità dal cuoco Lorenzo Biagiarelli e dalla compagna, la giornalista Selvaggia Lucarelli – è passata nell’arco di poche ore dall’essere definita una “lezione di civiltà” a venire accusata di voler “raggirare” i propri clienti per farsi pubblicità e rappresenta anche lo specchio di tutti i problemi dell’informazione italiana. Ma ben prima che venisse trovata morta nel primo pomeriggio di ieri sulle rive del Lambro e che fosse ipotizzato il suicidio. In questa vicenda, come sottolinea il direttore di MOW, Moreno Pisto, non c’è niente che sia andato per il verso giusto. Ma perché? Proviamo a ragionare tralasciando le polemiche e cercando di ricordarci come funzionava il mondo precedente all’avvento dei social e dei motori di ricerca. Sì, perché troppo spesso ci dimentichiamo che oggi l’informazione è succube di logiche che non permettono ai giornalisti di fare il proprio mestiere con professionalità. C’è poi chi cerca di resistere, con scarsi risultati, e chi schiaccia sul pedale dell’acceleratore per sfruttare le potenzialità del “sistema”. I giornalisti, infatti, sono costantemente costretti alla velocità di dover uscire con la notizia (arrivare prima equivale a raccogliere più traffico), privilegiando l’esasperazione del racconto, la forzatura dei dettagli, i titoli di derivazione clickbait. E non perché sono brutti e cattivi, perché sul digitale è necessario (sempre per il traffico) rispondere a “linee guida” di piattaforme come Google – che poi favoriscono chi segue certi parametri – e i vari social network, i quali amano tutto tranne il ragionamento complesso e l’aggiunta di troppi e pesanti dettagli. Il risultato? Acchiappa la notizia, costruiscila nel modo più scandalistico possibile e buttala in pasto ai lettori. E non è tutto.
Nel mondo dell’informazione, a causa delle sempre minori tutele dei giornalisti (meno pagati, mano garantiti, meno competenti, meno attenti), si è perso di vista un passaggio centrale della deontologia: “Il giornalista garantisce il diritto all’informazione su fatti di interesse pubblico, nel rispetto dell’essenzialità dell’informazione”. Dov’è finita l’essenzialità dell’informazione in questa e in altre storie, da quella dei pandori di Chiara Ferragni a qualsiasi altro “scandalo” diventato virale negli ultimi anni? Così una ristoratrice di un piccolo paesino viene prima esaltata come un premio Nobel e poi attaccata neanche fosse Matteo Messina Denaro. In questo senso l’informazione più di qualche responsabilità ce l’ha, eccome. Non voglio dire che il cuoco Lorenzo Biagiarelli e la giornalista Selvaggia Lucarelli (così come il giornalista del Tg3 Jari Pilati, che l’ha incalzata di domande di fronte al suo locale) sono responsabili della morte della ristoratrice, ci mancherebbe altro, ma che forse siamo un po’ tutti vittime di un “sistema” del quale, fino a poco tempo fa, vedevamo solo i vantaggi tralasciando le conseguenze negative. Ma stiamo sul pezzo, prendendo spunto dal post con il quale Biagiarelli, due giorni fa, si è improvvisato cronista e ha messo in dubbio la replica della ristoratrice: “Ho chiamato la titolare della pizzeria della recensione omofoba e abilista, visto che ha appena dichiarato a una giornalista che la sua recensione è vera e che non si aspettava ’tutta questa cattiveria’. Non si capisce quale cattiveria, visto che ha tutta la stampa e le tv che la osannano e solo due o tre stronzi hanno provato a sollevare dei legittimi dubbi sulla storia, ma va bene così”. Intanto, a che titolo un cuoco chiama una ristoratrice pretendendo una risposta? Già dal tono sembra che, siccome lui è famoso? seguito sui social? compagno di Selvaggia Lucarelli? allora chiunque gli debba delle risposte. E già qui siamo in un cortocircuito. Andiamo avanti: “La telefonata è durata sei minuti. Le ho chiesto se lo screenshot fosse vero. Mi ha detto che è vero, che ha ’allargato e messo in evidenza’ la sua risposta (quindi modificandolo). Le ho fatto presente che il font non è lo stesso di Google, da cui dovrebbe provenire la foto, e mi ha risposto che era ’andata dai carabinieri per tutelarsi su questa cosa e dare la sua versione’. Le ho detto che bastava che mi mandasse lo screenshot originale, ma mi ha detto di averlo cancellato per fare spazio sul telefono ’perché lo usa anche per fare i menu’”. E qui Biagiarelli, oltre a chiedere qualcosa che non gli è per niente dovuto, va oltre rivelando alla sua community Instagram con 229mila follower che la ristoratrice si è rivolta ai carabinieri. Con che diritto lo ha fatto? Non è dato saperlo. Non è finita, perché il post sentenzia: “Per me finisce qui, a meno che non mi convochino i carabinieri. Finisce qui anche per umana pietà per la signora e per la sua attività, vittima un po’ del proprio goffo tentativo di ribalta ma soprattutto di chi ha trasformato una piccola storia dalla dubbia veridicità in un caso nazionale. Edit: un ringraziamento al Tg3 e al suo giornalista Jari Pilati, l’unico che ha avuto il coraggio e l’onestà di tornare sui suoi passi e fare notare alla signora tutte queste incongruenze. Recuperando il Tg3 delle 19 di stasera potete vedere com’è andata a finire”. Così, senza avere nessun ruolo (dall’Ordine dei giornalisti, per esempio?) che giustifichi la sua telefonata e le sue domande alla ristoratrice, Biagiarelli conclude l’ispezione e emette la sentenza. Pure magistrato, ma basta essere influencer? Per di più, la giornalista – e compagna – Selvaggia Lucarelli rilancia la sua “inchiesta” sul proprio profilo da 1 milione e 300mila follower e il Tg3 rincara la dose sbattendo in prima serata la faccia di Giovanna Pedretti che non sa rispondere all’inviato, mentre si stringe con le spalle al muro del suo locale in evidente stato confusionale. E in un battibaleno è ribaltata l’immagine dell’imprenditrice “modello” a “cattivo” esempio. Vi sembra buona informazione? Risponde all’essenzialità? Ma soprattutto, ha il senso della misura?
Da una notizia non verificata (a causa della velocità e l’incuria che abbiamo spiegato sopra), che ha trasformato una donna comune in eroina, si è passati in un lampo ad azionare il meccanismo opposto, la gogna mediatica che di solito si applica a personaggi pubblici che hanno commesso enormi nefandezze, ma di solito hanno anche le spalle un po’ più larghe per resistere al contraccolpo. A loro discolpa, Biagiarelli scrive nelle storie Instagram: “Ci tengo a respingere con forza le accuse di ’odio social’ e ’shitstorm’ dal momento che la signora Giovanna, in questi due giorni, non ha ricevuto dalla stampa che lodi e attestazioni di stima, e solo qualche sparuto e faticoso tentativo di ristabilire la verità che, in ogni caso, non ha e non avrebbe mai avuto pari forza”. Ancora una volta, Biagiarelli arriva a conclusioni tutte sue. Come fa a sapere quali conseguenze ha avuto il suo post, il rilancio di Selvaggia Lucarelli e il servizio del Tg3 verso la ristoratrice? Conosce quanti messaggi ha ricevuto sul cellulare e sui social, quante chiamate, quante persone della sua piccola comunità le hanno citofonato a casa? Difficile che lo sappia, eppure lo presuppone e la sua presunzione la getta nuovamente in pasto a una community di centinaia di migliaia di persone. Come se non bastasse, Selvaggia Lucarelli va oltre con il suo milione di fan: “A questo aggiungo che si sta parlando di gogna, ma di fatto non c’era manco stata questa gogna di cui si sta parlando sui social (lo presuppone anche lei, come Biagiarelli, senza però saperlo davvero, nda). Temo quindi che si sappia troppo poco dei pregressi, della storia personale. Come sempre, del resto. E i pregressi – drammatici – purtroppo ci sono, ma non è il momento di parlarne”. E subito dopo pubblica un estratto di un articolo dove si parla del “passato famigliare di Giovanna, con il povero fratello che aveva stabilito un identico destino”. In questo modo la sentenza è già passata in due gradi di giudizio e persino dalla Cassazione e sono pronti a un altro trend. C’è un però, che viene da un mondo scomparso che può essere utile ricordare.
Lo si capisce meglio raccontando una mia esperienza personale, durante gli inizi in un quotidiano locale, quando mi mandarono a un pranzo della Caritas in cerca di storie. Mi misi in fila con chi aspettava un pasto e cominciai a fare domande alle persone trovando, a un certo punto, un signore che mi raccontò di essere stato licenziato dalla Provincia senza giusto motivo (in realtà era depresso, ma allora non c’era grande sensibilità su certi temi), e dopo il licenziamento tentò il suicidio. Mi fece anche vedere i polsi con le cicatrici. Fortunatamente lo salvarono, ma la sua inefficienza spinse i superiori a lasciarlo a casa. Feci persino una foto a quei polsi ricuciti, poi tornai in redazione entusiasta per scrivere la sua storia, peccato che il caposervizio di allora mi bloccò: “Questa non si scrive, gli faremmo ancora più del male”. Solo in seguito venni a sapere, per vie traverse, che il caposervizio chiamò la Provincia, gli spiegò la situazione, e a quel signore venne trovato un impiego per potersi mantenere. Il destino ha voluto che un mese fa, durante le festività di Natale passeggiando in piazza a Piacenza, ho incrociato proprio quell’uomo ed era ancora vivo passati 20 anni. E ho pensato: meno male che a quel tempo non c’erano i social, i motori di ricerca, gli influencer, ma c’era più tempo per pensare alle conseguenze di ciò che scrivevamo e anche un briciolo di umanità in più rispetto alle persone oggetto dei nostri articoli.
Lo si capisce meglio raccontando una mia esperienza personale, durante gli inizi in un quotidiano locale, quando mi mandarono a un pranzo della Caritas in cerca di storie. Mi misi in fila con chi aspettava un pasto e cominciai a fare domande alle persone trovando, a un certo punto, un signore che mi raccontò di essere stato licenziato dalla Provincia senza giusto motivo (in realtà era depresso, ma allora non c’era grande sensibilità su certi temi), e dopo il licenziamento tentò il suicidio. Mi fece anche vedere i polsi con le cicatrici. Fortunatamente lo salvarono, ma la sua inefficienza spinse i superiori a lasciarlo a casa. Feci persino una foto a quei polsi ricuciti, poi tornai in redazione entusiasta per scrivere la sua storia, peccato che il caposervizio di allora mi bloccò: “Questa non si scrive, gli faremmo ancora più del male”. Solo in seguito venni a sapere, per vie traverse, che il caposervizio chiamò la Provincia, gli spiegò la situazione, e a quel signore venne trovato un impiego per potersi mantenere. Il destino ha voluto che un mese fa, durante le festività di Natale passeggiando in piazza a Piacenza, ho incrociato proprio quell’uomo ed era ancora vivo passati 20 anni. E ho pensato: meno male che a quel tempo non c’erano i social, i motori di ricerca, gli influencer, ma c’era più tempo per pensare alle conseguenze di ciò che scrivevamo e anche un briciolo di umanità in più rispetto alle persone oggetto dei nostri articoli.