La Stampa, 15 gennaio 2024
Intervista a Umberto Orsini e Franco Branciaroli
Ragazzi irresistibili in scena ma anche nella vita, Umberto Orsini e Franco Branciaroli. Ragazzi irresistibili e infaticabili, grandi vecchi della scena italiana (90 anni ad aprile il primo, 77 a maggio l’altro), orgogliosi esponenti di un teatro in via di sparizione. Dopo aver fatto compagnia insieme nel 2021 con Pour un oui, ou pour un non di Nathalie Sarraute per la regia di Pierluigi Pizzi, ora tornano con il classico di Neil Simon diretti da Massimo Popolizio. È una co-produzione tra la compagnia dello stesso Orsini, gli Incamminati e il Teatro Biondo di Palermo che debutta al Piccolo Teatro di Milano domani. Il loro ruolo quello di vecchia coppia di attori, litigiosi e rancorosi, che una tv riunisce per una serata speciale. In filigrana, con ironia e affetto, leggi molto della loro vita. Senza contare che in passato sono stati davvero irresistibili per intere generazioni femminili.Quanto c’è di voi nei due protagonisti?Franco Branciaroli «È una finzione perfetta e contemporaneamente una specie di autobiografia della nostra vita di teatranti, ma senza Broadway e senza liti»Umberto Orsini «Il testo di Simon è la bella metafora di un’amicizia tra attori, fatta di complicità e solidarietà, di vite passate insieme in tournée, vivendo alla giornata. Anche se poi lì, a interromperla, è arrivato un litigio».Inaspettatamente, in questa fase della vostra carriera, avete scelto una commedia: voglia di leggerezza?UO «È un’idea che è maturata durante la tournée dello spettacolo di Pizzi»FB «Si era involontariamente formata una coppia. Volendo continuare a lavorare insieme, poiché di testi per due, con i ruoli davvero paritetici, non ce ne sono molti, Neil Simon è sembrata scelta giusta oltre che quasi inevitabile. Il testo è drammaturgicamente perfetto».UO «Attenzione, comunque. Ha un tessuto profondo che va al di là della pura commedia. Lo stesso Simon ha sempre rivendicato di non averla scritta per dei semplici comici ma per attori completi. Dopo di che: non sgomitiamo per fare ridere il pubblico, ma la risata arriva. Ed è un riscontro immediato e gratificante, una cosa nuova per chi, come noi, è abituato al silenzio della platea che accompagna il dramma».FB «Simon è un Goldoni del 900 che parla di morte e vecchiaia e di teatri che chiudono. E questa ombra si estende impalpabilmente su tutto il testo. C’è una drammaturgia e un ritmo che l’attuale teatro, spesso ridotto a puro adattamento di romanzi, ha perso».Come vi siete divisi i ruoli?UO «Rispecchiano come siamo: Franco è Willy perché più liberamente cialtronesco ed estroverso; mentre io sono Al: solo apparentemente spalla, rivendicativo e puntuto. Però il pubblico alla fine, ne sono convinto, va oltre i personaggi e pensa a me e a Franco, due attori anziani che vivono per il teatro».FB «Siamo davvero diversi e complementari come i due personaggi: Umberto è un solitario, un organizzatore nato e un cuoco provetto. Ama fare l’impresario teatrale, una cosa per cui sono negato. E infatti nella mia carriera sono sempre stato uno scritturato: preferisco declinare ogni responsabilità, anche solo quella di un semplice biglietto del treno da prenotare online: so come si fa, ma sbaglio, e allora meno male che c’è chi lo fa per me».Da dopo la pandemia fare compagnia insieme. Ma la vostra conoscenza è ben precedente: a quando risale?UO «Ad almeno una trentina di anni fa. Abbiamo lavorato insieme in Besucher di Botho Strauss per la regia di Ronconi (del 1989, ndr). Poi ci siamo ritrovati per un Otello (regia di Lavia, 1995, ndr). C’eravamo annusati e piaciuti. Ne è nata un’amicizia, nella vita e non solo teatrale, fatta di stima reciproca, di chiacchiere sul nostro lavoro, sul teatro, su quello che fanno i colleghi... Ci piace ricordare. Poi magari all’ennesima volta che Franco ripete lo stesso aneddoto, alzo la mano aperta: è il segnale convenuto che è giunto il momento di fermarsi. Insomma, ci capiamo e tolleriamo. E questo si riverbera inevitabilmente in scena. D’altronde, se non ci fosse questa complicità e tolleranza, chi ce lo farebbe fare di metterci insieme, di fare compagnia? E poi: siamo tra gli ultimi sopravvissuti di un teatro che va sparendo. Chi mette in scena due nomi di richiamo come noi? Ormai più nessuno, neppure gli Stabili».Un esempio di questa complementarietà?UO «A Franco piace improvvisare. Secondo lui sono stato il primo, se non il solo, a non lamentarsene. Ma la ragione è semplice: io capisco e condivido il suo desiderio di migliorarsi a ogni replica, non penso minimamente che lo faccia per fregarmi. E a tavola apprezzo la sua bravura nella scelta dei vini»FB «A lui invece piace cucinare. Quando sono a Roma, amo farmi ospitare a casa sua: ha una stanzetta dove mi rifugio e da cui salto fuori per cena. Senza contare che sotto casa ha la miglior gelateria del mondo».Siete complementari anche sul palco?UO «Le nostre carriere hanno avuto un andamento diverso, lui è stato più rigoroso, la mia è stata influenzata, nei primi anni, dal successo televisivo con gli sceneggiati come I fratelli Karamazov all’amore durato 15 anni con Ellen Kessler. Ero spesso sui rotocalchi, anche per via della storia tormentata con Rossella Falk, lui solo all’epoca della Chiave di Tinto Brass on Stefania Sandrelli».Cosa vi rende diversi dalle giovani generazioni?UO «Non ci microfoniamo: da questo punto di vista, siamo ormai diventati una specie di avanguardia rivoluzionaria. Ultimi portatori di una cultura fatta di sapienza e conoscenza. Anche questo piacere oper le tournée lunghe non è più comune: con “Ragazzi” saremo in giro fino a fine marzo. Poi, non bastasse, ripartiremo entrambi con altri spettacoli: io con Le memorie di Ivan Karamazov»FB «E io con Il mercante di Venezia. Infaticabili sì, ma il teatro per un attore è ottimale (mentre cinema o fiction che hanno orari e dai tempi faticosissimi, per cui me ne tengo alla larga): non hai preoccupazioni, la tua vita è organizzata da altri, te ne stai in albergo a dormire e leggere fino a tardi, poi fai le tue tre ore di lavoro in scena, quindi vai a tavola con un vecchio amico o qualche giovane collega (un rapporto che non fa mai male mantenere dopo una certa età). E intanto ti tieni lontano da quel simulacro di vita (ma morte vera) che è la tv per chi ha la nostra età».Infaticabili davvero, non siete stanchi dopo oltre mezzo secolo in palcoscenico?UO «Mi piace pensare di avere ancora qualcosa da dare, con cui sorprendere il pubblico. È proprio questa possibilità di esplorazione dell’inedito che ti fa sentire vivo e allontana gli acciacchi dell’età. Quando entri in una vita anche fittizia, che non è la tua, ti scordi dei tuoi problemi, dei dolorini dell’età. C’è una cosa che dice Neil Simon, con cui sono d’accordo: «La vecchiaia non esiste. È una sciocchezza. Dove c’è talento non c’è vecchiaia"»FB «La vecchiaia è spesso morte anticipata: vivi ma sei morto. Una morte che è l’impossibilità di avere possibilità. Non hai (più) la possibilità di vivere, di pensare, di innamorarti, di scoprire cose nuove. E allora: viva altri cento anni così, in scena. Senza dimenticare che il teatro, che costringe a un esercizio ginnico e aerobico continuo e forzato, fa pure bene alla salute. Più da vecchi che da giovani quando in fondo ti tiene lontano da cose della vita che non trovi il tempo di fare». —